Dominic Thiem è l’avversario più temibile, oggi, per Novak Djokovic nella finale del suo Slam preferito, sul cemento lento di Melbourne, con in palio quel Major numero 17 che lo porterebbe a tre sole tacche dal record di Roger Federer? D’acchito, viene da sottolineare come “Il nuovo Muster” possieda un gioco con meno variabili del miglior Sascha Zverev, quello che però non abbiamo ancora visto, e che quindi ipotizziamo potrebbe essere, sempre e soltanto però se il bambino d’oro dovesse mai accettare le briglie di un super-coach, colmando quindi le evidenti lacune soprattutto sul lato destro. Come insisteva – invano – quell’antipatico di Ivan Lendl, che aveva fatto un analogo miracolo con Andy Murray, ma è stato stato liquidato prematuramente dal troppo tenero papà Zverev.
Il nuovo Muster non è esplosivo sul servizio come l’amico Sascha, non ha la stessa presunzione, mista ad arroganza, che contraddistingue i campioni di razza e la loro folle imprevedibilità, ha più bisogno di cominciare lo scambio per trovare la palla giusta da percuotere in anticipo, è più metodico e ordinato. Però, sta dimostrando di aver acquisito qualità di freddezza e di calma e anche di risettaggio dopo l’ultimo errore, armi che gli hanno concesso di respingere le proprie paure e l’istinto di sopravvivenza di Rafa Nadal nei quarti e di recuperare dopo il primo set contro Zverev in semifinale.
Sono vittorie che fortificano la fiducia e valgono molto di più di quelle ottenute da Djokovic in questo torneo fin troppo facile, nel quale ha dovuto fronteggiare solo i resti di Roger Federer e, nonostante questo, soltanto per un pelo non ha ceduto un primo set che poteva dimostrarsi pericolosissimo. Denunciando ancora una volta di avere un temibilissimo tallone d’Achille nel suo ego arrogante che non lo fa amare dal pubblico in tutto gli stadi del mondo. Tranne forse a Melbourne, per via della folta e orgogliosa comunità serba di immigrati locali.
Djokovic è senza tema di dubbio il migliore di tutti sul cemento, ancor di più su quello della Rod Laver Arena che gli aggiusta la palla all’altezza prediletta per colpire al meglio ed imporre il suo micidiale, robottizzato, forcing a tutto campo. Negli scontri diretti con l’austriaco è avanti 6-4, con una sola sconfitta sul duro, peraltro indoor, e nel Masters di fine anno a Londra dove è arrivato stremato. Ma, a ben guardare, le sue affermazioni specifiche sul cemento all’aperto – sempre che il bizzarro tempo di Melbourne non costringa a chiudere il tetto — si riducono a una sola, a Miami 2016, quando Thiem stava cominciando il duro apprendistato sul campo. Quello che ha fatto nelle ultime quattro campagne sulla terra rossa del Roland Garros dove ha pagato dazio contro Nadal nelle ultime due finali consecutive.
Comunque sia, l’austriaco è stato premiato con la prima finale Slam al di fuori di Parigi grazie ai risultati sul duro nell’ultimo anno, quando si è aggiudicato Indian Wells, Pechino e Vienna, e ha ceduto solo in finale e solo al Tsitsipas caldissimo del Masters di Londra. Sta molto più dentro al campo, serve meglio, usa molto meglio il dritto, sbaglia meno di rovescio. Soprattutto, è migliorato ulteriormente in reattività e velocità, per cui recupera prima l’equilibrio sia di gambe che di braccia, per poter arrivare prima sulla palla e colpire più in fretta. Epperciò, ricorda sempre più l’unico avversario che Djokovic ha davvero subito nei turni avanzati degli Slam, anche lui estremamente potente e con un portentoso rovescio una mano, micidiale, lunghissimo, bassissimo, piatto e velocissimo in lungolinea. Che mette in crisi il lato destro dell’apparato difensivo di Novak, tagliando il campo come un coltello e costringendo il campione di gomma serbo a sguarnire pericolosamente il fronte sinistro.
*Articolo ripreso da supertennis.tv