“All’ultimo momento si apprende che Valentino Mazzola è stato colpito da un forte attacco di febbre in seguito a mal di gola. I tecnici del Torino escludono che possa scendere in campo contro l’Inter. Egli sarebbe probabilmente sostituito con l’ungherese Schubert o con Bongiorni.”
La notizia è quasi nascosta, a pagina due del “Corriere della Sera” di sabato 30 aprile 1949. Una “breve”, come si dice in gergo giornalistico: il capitano del Torino salterà la quintultima di campionato, in programma quello stesso giorno, assenza pesante in un momento decisivo della stagione. I granata hanno quattro punti di vantaggio proprio sull’Inter. Un’eventuale sconfitta riaprirebbe a tutti gli effetti la lotta per il titolo. Qualcosa di mai visto nei campionati del dopoguerra, tutti stra dominati dal Torino.
Da queste poche righe parte la storia della più grande sciagura che abbia colpito il calcio italiano. Una storia di dolore ma anche di rimorsi per quello che poteva essere e non è stato. Torniamo, però, a quel 30 aprile e al protagonista di quel taglio basso del Corriere, Valentino Mazzola.
Nato e cresciuto a Cassano d’Adda, al granata spiace enormemente saltare l’appuntamento milanese. San Siro è sempre San Siro, e poi di lì a poco potrebbe diventare il suo stadio. Sì, perché sui giornali si parla con sempre maggiore insistenza di un passaggio del numero 10 granata in nerazzurro. Non solo: Inter significa Benito Lorenzi, un amico per Mazzola. Si sono conosciuti in nazionale, caratteri diversi ma intesa vincente. Dell’Italia Valentino è uno dei leader, mentre Lorenzi è uno degli ultimi arrivati che prova stravolgere le gerarchie. Fino a questo momento non gli è andata granché bene: una sola presenza, nell’amichevole di marzo contro la Spagna. Pare però che proprio Valentino si sia speso per il giovane collega: qualche buona parola all’orecchio di Ferruccio Novo, numero uno della commissione tecnica che ha sostituito il crepuscolare Vittorio Pozzo alla guida degli azzurri. Novo, per la cronaca, è anche il presidente del Torino: si presume che Mazzola non abbia faticato più di tanto ad avere udienza.
Benito Lorenzi ha un soprannome, “Veleno”, che è tutto un programma. Se l’è meritato negli anni dell’infanzia a Borgo A Buggiano, nel pistoiese, dove pare fosse una sorta di Gianburrasca. Non che crescendo sia cambiato di molto, al netto della bravura con il pallone. Nel 1947, alla seconda presenza all’Inter, dopo aver segnato due gol si mette a provocare gli avversari della Juventus. Uno di loro, il campione del mondo Pietro Rava, non ci vede più: parte con l’intenzione di colpirlo con un pugno, solo che Lorenzi con mossa felina lo evita e così la peggio tocca a un altro nerazzurro, Bruno Quaresima, che passa di lì per caso. Colpito e affondato.
Una scheggia impazzita in campo, Lorenzi, una pasta di ragazzo fuori. In quel 30 aprile 1949 Mazzola stringerebbe volentieri la mano al giovane collega, magari ne approfitterebbe per chiedergli qualcosa sull’ambiente interista. Invece non se ne fa nulla. Pazienza, vorrà dire che ci si rivedrà in nazionale.
Nell’agenda del Torino c’è subito un altro appuntamento: la squadra deve volare a Lisbona, per un’amichevole con il Benfica in programma martedì 3 maggio. È la partita d’addio al calcio del capitano, Francisco José Ferreira, 522 presenze con la maglia delle Aguias, le Aquile. Lui e Mazzola si sono parlati in occasione di un’altra amichevole, quella fra Italia e Portogallo, giocata in febbraio a Genova e vinta 4-1 dagli azzurri. Ferreira vorrebbe chiudere contro il Torino, una delle squadre più ammirate al mondo, e viene accontentato. L’incasso sarà tutto per lui, al netto del rimborso delle spese di viaggio sostenute dal club piemontese. Il presidente Novo, però, pone una condizione: che i suoi non perdano contro l’Inter. Bisogna che il margine di vantaggio sui nerazzurri non si assottigli.
In altre parole, serve un pari a San Siro, anche se la vittoria non sarebbe male. In caso contrario, si resta a casa. Precedenza alla lotta scudetto, con tanti saluti e tante scuse a Ferreira.
Nel 1949 la guerra è finita da quattro anni e ha lasciato sul terreno morte e distruzione. Scarseggiano i beni di prima necessità, per andare in treno da Roma a Napoli ci vogliono sette ore; da Roma a Milano ne occorrono addirittura più di trenta. Ci sono ferite che non è facile rimarginare, anche sul piano sociale: c’è chi ha combattuto il fascismo e chi invece dal fascismo ha tratto beneficio, gente che adesso si ritrova a dividere lo stesso ufficio, la stessa aula scolastica. Una mano la dà lo sport. Il Torino diventa la squadra di tutti, il simbolo di un paese che ha una voglia matta di rialzarsi e di tornare alla normalità. Ma non c’è solo il calcio. L’Italia si esalta anche per le imprese di Fausto Coppi e Gino Bartali. Pallone e bicicletta, i due capisaldi sportivi del dopoguerra.
Nel 1948 Ginettaccio trionfa al Tour de France nei giorni immediatamente successivi all’attentato a Palmiro Togliatti. L’Italia scivola sull’orlo di una guerra civile che, qualcuno dice, non essere scoppiata anche grazie all’impresa di Bartali. Nei giorni dell’attentato a Togliatti e della vittoria di Bartali al Tour de France, il Torino è in Brasile. In programma, amichevoli contro Corinthians, Palmeiras, Portuguesa e San Paolo. Una tournée in piena regola, un evento che per l’epoca ha qualcosa di straordinario. Sono anni in cui spostarsi da un continente all’altro è un’impresa che rasenta l’impossibile. Eppure, i granata hanno accettato con entusiasmo l’invito: per soldi, forse, ma anche per raccogliere l’applauso dị tutta quella gente, molta con radici italiane, che non vedeva l’ora di ammirare dal vivo squadra le cui gesta erano arrivate fino al lontano Sud America.
Per chi partendo da Torino ha girato in lungo e in largo il Brasile, una trasferta in Portogallo deve sembrare poco più di una gita fuori porta. E in più c’è anche un discorso di affinità linguistica. Prima però, Ferruccio Novo è stato chiaro, il viaggio a Lisbona bisogna meritarselo. Classe 1897, Novo è diventato presidente del Torino nel 1939. La famiglia possiede una fabbrica di accessori in cuoio per l’industria, nulla a che vedere con le dimensioni economiche della FIAT, tanto per restare a Torino, ma abbastanza per possedere una società di Serie A. Per dedicarsi a tempo pieno alla nuova avventura calcistica, Novo ha demandato la gestione dell’azienda al fratello Mario. In città spadroneggia la Juventus, quella del primo ciclo di cinque scudetti consecutivi, ma Novo non si scoraggia: se non può rivaleggiare sul piano dei soldi, sposta la competizione su quello delle idee.
Si circonda di collaboratori fidati assieme ai quali pianifica ogni singola mossa, a cominciare dalle operazioni di mercato. Valentino Mazzola, per esempio, diventa granata nel 1942. Fino a quel momento è un giocatore del Venezia, città nella quale era arrivato perché arruolato in marina; venuto a sapere di un provino, si era presentato al campo a piedi nudi: pare non avesse i soldi nemmeno per un paio di scarpe. Ai dirigenti del Venezia era bastato vederlo tirare quattro calci al pallone per ingaggiarlo e dotarlo di regolari calzature. Con lui, c’è l’inseparabile amico Ezio Loik: l’anno prima hanno vinto praticamente da soli la Coppa Italia. Novo non ci ha pensato due volte e se li è assicurati per la somma di 1.250.000 lire. Li voleva anche la Juventus, solo che i suoi emissari si sono fermati a 900.000 lire convinti che bastassero.
Il Torino è una squadra innovativa anche in campo. Pratica il sistema, un modulo che si è diffuso negli anni trenta in Inghilterra ma che l’Italia ha sempre fatto fatica a comprendere. Pozzo aveva vinto due Mondiali con il metodo, che prevede due difensori alle spalle di tre mediani: nel sistema, invece, il centromediano si abbassa sulla linea dei terzini che a loro volta si allargano per formare una sorta di difesa a tre, Si parla anche di WM, dal momento che la disposizione in campo dei dieci giocatori di movimento dall’alto in basso, cioè dall’attacco alla difesa, ricorda la forma di queste due lettere. Il Torino, però, vince perché è più forte, non tanto o non solo per il modulo che adotta. Lo guida Ernest Erbstein, un genio della panchina. È un ebreo ungherese che ha conosciuto anche i campi di concentramento e che deve la vita proprio a Ferruccio Novo, il suo presidente. Può capitare che ci siano giornate un po’ così, nelle quali la squadra si fa prendere dalla pigrizia: a quel punto ci pensa Oreste Bolmida. Classe 1893, capostazione a Torino Porta Nuova e tifoso-trombettiere preposto a suonare la carica. Valentino Mazzola al sentire il boato si rimbocca le maniche, i compagni gli vanno dietro e per gli avversari iniziava il “quarto d’ora granata”.
Mazzola e Loik porteranno il Torino a vincere cinque scudetti di fila e due Coppe Italia, con Mazzola che nella stagione 1946-47 si laurea anche capocannoniere. Nella primavera del 1949, però, lo scudetto non è una cosa scontata. L’Inter è a quattro punti e c’è da giocare lo scontro diretto a San Siro. Poi mancheranno quattro partite. Se i nerazzurri vincono si portano a meno due. C’è in ballo l’amichevole di Lisbona, la società ha provveduto con largo anticipo ai biglietti aerei e ai visti per il Portogallo, ma Novo è stato chiaro, se si perde, si resta in Italia. L’Inter davanti mette paura: Lorenzi, Nyers, Amadei, tutta gente con il gol in canna. E il Toro è senza Valentino. Qualcun altro dovrà rimboccarsi le maniche.
La partita la fanno quelli con la maglia nerazzurra.
“Una contesa senza soste. Un accendersi continuo di rudi ma leali duelli. All’Inter si offriva l’occasione quanto mai propizia per portare l’attacco diretto al primato del Torino. Squadra completa con un Lorenzi fresco e smanioso di gioco contro un Torino che nel giro di pochi giorni aveva perso Maroso e poi addirittura Mazzola”
– parola di Renato Casalbore, fondatore e direttore di Tuttosport.
Attacca, l’Inter, ma non sfonda. Il portiere granata, Valerio Bacigalupo, è in stato di grazia.
“A un certo punto il gol sembrò maturo. Amadei dava ad Armano il quale ripassava il pallone al centrattacco: questi, da una dozzina di metri, faceva partire un bolide a mezza altezza, angolato, ma Bacigalupo intuiva e riusciva a fermare la palla. Al ventitreesimo Lorenzi con un’abile finta sembrò che si fosse aperto la strada della porta, ma proprio al momento di concludere arrivò Fadini, che gli inchiodò il pallone sul piede. Il pallone restò li e Lorenzi saltò via, lontano. Fischi assordanti per l’arbitro, ma non azione scorretta”
– scrive Luigi Chierici, fondatore e direttore di “Stadio”. Finisce 0-0.
Ancora Casalbore:
“Nei momenti supremi, quando l’attacco dell’Inter era riuscito a schiudersi davanti il sentiero del successo, è intervenuto Bacigalupo. Al successo del Torino, tale dobbiamo considerare il pareggio di Milano, se dobbiamo dare un nome dobbiamo scegliere proprio quello dell’estremo difensore. Credo che Bacigalupo abbia disputato una delle più belle partite della sua carriera, sicuramente la più efficace di questa stagione. E guizzato due volte sui piedi di Amadei e Lorenzi che sembravano ormai vicini all’agognata meta”.
Già, Amadei e Lorenzi. Hanno avuto a disposizione il pallone per riaprire il campionato, per cancellare la trasferta granata in Portogallo, per cambiare – ma questo ancora nessuno può immaginarlo – il corso della storia. Sarebbe bastato un pizzico di precisione in più, magari un rimbalzo, un ciuffo d’erba, o semplicemente un Bacigalupo meno spaziale. Così, invece, il Torino può tranquillamente preparare le valigie. Quello che fa anche Renato Casalbore, uno dei giornalisti invitati a Lisbona: gli altri sono Renato Tosatti e Luigi Cavallero. Un quarto, il più famoso di tutti, deve rinunciare: Nicolò Carosio, il primo storico radiocronista, sarebbe salito volentieri sull’aereo ma l’amichevole contro il Benfica coincide con la cresima del figlio. Precedenza alla famiglia, almeno per una volta.
Intanto il pari contro l’Inter continua a far discutere sotto la Madonnina. Scrive Ciro Verratti sul Corriere della Sera:
“È caduta anche l’ultima illusione. L’Inter nonostante i suoi colpi di maglio non è riuscita a infrangere la difesa granata e così il Torino ha ricucito lo scudetto sulle maglie dei suoi campioni”.
Poi una divagazione che mette i brividi:
“Adesso il campionato è proprio morto, facciamogli pure i funerali. Così ci diceva a fine gara un nerazzurro per la pelle e forse quel signore non si accorgeva che morto era soltanto il sogno dell’Inter che se mai bisognava fare il funerale ad un troppo fragile castello di speranze”.
Morte, funerale: parole che presto non saranno più banali metafore.
Ci sono tutti, sul trimotore Fiat G212 che il 1 maggio decolla con destinazione Lisbona, anche il febbricitante Mazzola, anche l’acciaccato Maroso. Aldo Ballarin, difensore granata, ha chiesto e ottenuto che fra i convocati ci fosse il fratello Dino, terzo portiere. A Torino resta Gandolfi, il vice di Bacigalupo, e non la prende benissimo, almeno sul momento. A casa anche la riserva Sauro Tomà, da tempo infortunato. Scalo tecnico a Barcellona e pranzo in aeroporto con il Milan, diretto a Madrid per un’amichevole contro i Blancos. Fra un bicchiere di vino e una bistecca, qualcuno butta la proposta: giocare un Milan-Torino a Barcellona nello stadio dell’ Espanyol. Quando? Subito, il 5 maggio, prima del rientro in Italia.
Antonio Busini, dirigente accompagnatore del Milan, prova a convincere Rinaldo Agnisetta, direttore generale del Torino. Si tratterebbe solo di posticipare il volo di ritorno. In sé nulla di insormontabile, solo che ci sono le ultime quattro partite di campionato da giocare, i tempi sarebbero strettissimi e la matematica dice che lo scudetto non è ancora vinto. Agnisetta ci pensa su, forse si consulta telefonicamente con Novo. Alla fine la risposta è un no. Un altro bivio della storia.
Il blitz a Lisbona sa più di vacanza che di impegno lavorativo, Il lunedì è dedicato allo shopping, con un occhio particolare a vini e liquori. In serata, poi, cena ufficiale offerta dal sindaco della capitale, Alvaro Berreto. Nessuno parla la lingua dell’altro, ma comprendersi non è un problema. Martedì 3 maggio è il giorno della partita. Il Torino si guarda bene dal guastare la festa a capitan Ferreira, così il Benfica vince 4-3 davanti a 40.000 spettatori più uno: Umberto di Savoia, l’ex re d’Italia in esilio nella vicina Cascais. L’abbraccio finale tra i due capitani è la cartolina più bella della giornata:
“Grazie di cuore, Valentino”, “È stato un piacere e un onore, Francisco”.
La sera, poi, tutti a cena, italiani e portoghesi. Si beve, si canta, si balla. A mezzanotte quelli del Torino ringraziano e salutano. Il volo di ritorno è fissato per le 9:40 dell’indomani, mercoledì 4 maggio. Sempre con scalo a Barcellona. Sarà una giornata lunghissima. Il Torino saluta Lisbona in una mattinata di sole. Dall’Italia, invece, arrivano notizie di maltempo: pioggia e nebbia, soprattutto nella zona di Torino. E qualcuno per colpa del meteo si è preso un malanno. Novo, il presidente granata, è a letto con la bronchite. Anche Roberto Copernico, il direttore tecnico, ha dovuto rinunciare alla trasferta: faceva parte della commissione delle squadre nazionali e due giorni dopo doveva essere a Genova per una partita della selezione cadetta. Il Conte Rosso, il torpedone con a bordo i granata, avrebbe dovuto atterrare alla Malpensa.
Copernico quel pomeriggio è a casa di Novo. Il cielo, verso le 16, si fa scuro. La pioggia è battente come in un giorno d’autunno. Anziché su Milano, il G212 alla fine fa rotta su Torino. Il vero motivo di questo cambio di programma non lo sapremo mai. L’ultimo contatto con la torre di controllo dell’aeroporto avviene alle 17. Sulla città si annunciano “raffiche di vento, scrosci di pioggia, nubi a 500 metri”. Il comandante Pierluigi Meroni, un cognome che diciotto anni dopo tornerà a solcare di lacrime i volti dei tifosi granata, comunica di procedere a duemila metri di quota. Questo, almeno, gli dice l’altimetro. In realtà non è così. L’aereo vola più basso, molto più basso. La basilica di Superga è a 672 metri sul livello del mare: alle 17.05 il G212 si schianta contro il muro di sostegno. Poi è solo silenzio, un silenzio rotto dalla pioggia che cade sulle lamiere accartocciate della fusoliera e dal crepitio delle fiamme.
Alle 17.20 il segretario Giusti comunica che un aereo era caduto a Superga. Sia Copernico che Novo non si preoccupano. Il Torino atterrerà a Milano. Col passare dei minuti, però, il dubbio si insinua nelle loro menti. Stare seduti in poltrona o alla scrivania diventa sempre più difficile. In casa c’è troppo silenzio. Copernico rompe gli indugi e si infila in auto direzione Superga. A poco a poco il dubbio diventa certezza. Sul piazzale della basilica trova raccolta una piccola folla. Il dottor Allitto, capo della squadra mobile di Torino, corre incontro a Copernico e gli getta le braccia al collo, lo abbraccia: “Copernico! Copernico!” Il direttore tecnico capisce e riesce solo a pronunciare una parola: “Tutti?” – “Sì, tutti” risponde Allitto. Copernico sviene. Lo riportano in città. Ora deve dare la notizia a Novo. Il presidente non sa ancora niente. Cerca di tergiversare ma dal suo atteggiamento, dall’espressione del volto del suo collaboratore, Novo intuisce.
Per Ferruccio Novo è come aver perso in un colpo tutti i suoi figli. Per qualche minuto circola una voce che apre il cuore alla speranza. Non erano tutti sull’aereo: mancava Valentino Mazzola, che non essendosi completamente ristabilito ha preferito fermarsi un giorno in più a Lisbona. Non è vero, purtroppo. Dino Buzzati parte della redazione del Corriere della Sera in via Solferino, Milano, alle 19, poco meno di due ore dopo la sciagura. Arriva a Superga alle 21. Piove ancora, basse nubi si agitavano sopra la città illuminata. Acqua, fango, strade deserte. Finché di fronte ad un basso lungo muro vede un gruppo nero immobile. Il muro è quello del cimitero, il gruppo è dei parenti e degli amici che aspettavano. Ed ecco avanzare un corteo di macchine. Ciò che resta dei 31 morti.
“Si poteva credere che tanta vita umana, la giovinezza, i muscoli, l’impeto della lotta, l’urlo della folla, le vittorie, tutto questo romanzo fosse racchiuso per un atroce incantesimo in quelle sei o sette vetture dai vetri smerigliati che procedevano nella solitudine della periferia sotto la pioggia?”
– domanda Buzzati.
Indro Montanelli, invece, è rimasto a Milano. Si affaccia alla finestra ma non vede giocare a calcio i ragazzini in Piazza San Marco. Ormai, li conosce dai nomi che si sono dati. C’è “Mazzola”, un tracagnotto biondo sempre sorridente; “Gabetto” è un bruno smilzo e dai capelli che non si scompongono mai nemmeno nelle fasi più concitate della partita; “Bacigalupo”, ovviamente, è quello che in genere difende la porta ricavata in modo fortunoso. Per la sua stazza è sorprendentemente agile. Tutti i giorni dopo la scuola si allenano per la grande partita della domenica, dopo la messa, quando si raccoglie in piazza anche un nutrito gruppo di passanti a guardare. In una di queste partite uno di essi, tale “Grezar”, il mediano del Grande Torino, è degradato sul campo: cioè i compagni gli hanno tolto quel nome e gliene hanno dato un altro, più modesto.
Da quel 4 maggio, la degradazione è stata generale. I ragazzini di San Marco avevano ripreso ognuno il proprio nome di tutti i giorni. “Mazzola” è Dubini Mario, alunno della quarta B; è lui che legge il giornale ai compagni seduti attorno a lui in semicerchio. Nel silenzio generale, ogni tanto si sente qualche sospiro, qualche singhiozzo e qualche lacrima va a inzuppare le sottili pagine del quotidiano. Dubini Mario, allora, tenta di ricomporsi. Si aggiusta la frangia, si passa una mano sulla lente degli occhiali e riprende la lettura.
Montanelli avanza una proposta che rimarrà tale ma che testimonia il senso di smarrimento di un Paese intero:
“Per la partita del 22 maggio con l’Austria, se si farà, il collega Carosio, scampato miracolosamente al disastro, dovrebbe fare, per i ragazzi di tutta Italia, una trasmissione speciale, ribattezzando col nome degli scomparsi i loro sostituti: Mazzola passa a Menti; Menti indietro a Castigliano… dovrebbe egli dire al microfono; ché almeno ai ragazzi non sia tolta l’illusione dell’immortalità. Sono appena cinque giorni che li abbiamo visti giocare l’ultima volta qui a Milano. E già domani l’erba comincerà a crescere sulle tombe di quei diciotto giovani atleti che sembravano simboleggiare una omerica, eterna, miracolosa giovinezza. Come possono rendersene conto i ragazzi di piazza San Marco e di tutta Italia? Gli eroi sono sempre stati immortali agli occhi di chi in essi crede. E così crederanno, i ragazzi, che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta”
E il Milan? I rossoneri, dopo il rifiuto del presidente Novo riguardo ad una possibile amichevole a Barcellona, sono scesi in campo contro il Real il 4 maggio, grossomodo all’ora in cui l’aereo granata si è schiantato a Superga. A fine partita hanno appreso della sciagura. Il presidente Umberto Trabattoni ha subito cambiato programma: rientro a Milano in treno anziché in aereo. Un viaggio durato due giorni e reso ancor più cupo dal pensiero di chi non c’era più e dallo sconforto per non aver organizzato quella amichevole che avrebbe salvato la vita a Mazzola e a tutti gli altri.
Il 6 maggio è il giorno dei funerali. Trentuno bare allineate: i diciotto giocatori e poi tecnici, con in testa Erbstein, i dirigenti, i giornalisti, i membri dell’equipaggio. Partecipa una folla enorme, che qualcuno quantifica in 600.000 persone. Si dice che che a Torino non si trova più un fiore. Ed è vero. I fiorai hanno tutte le serrande abbassate. Gli ultimi fiori rimasti in città sono a segnare con petali sparsi il percorso del corteo funebre. Rose, garofani, viole che a pioggia cadono dai balconi, dalle logge, dagli alti piedistalli dei monumenti, dai cornicioni dei palazzi, dai tetti delle case, sulle trentun bare, a loro volta coperte di corone. A Torino non si trova più un fiore perché la città stessa è un fiore solo. Il popolo restituisce così quel che aveva ricevuto da quella squadra.
Piange una città e non solo quella. Piangono i colleghi dei diciotto giocatori morti a Superga. Per alcuni di loro è un pianto disperato di chi non sa darsi pace. Amedeo Amadei, per esempio, si porta dentro il rimorso per quelle occasioni da gol non concretizzate il 30 aprile, giorno di Inter-Torino. Un dolore che gli terrà compagnia fino alla fine dei suoi giorni. In una discesa si ritrovò di fronte Bacigalupo che gli si buttò sui piedi: senza esitazione, generosamente, Amadei saltò il portiere granata. Avrebbe segnato sicuramente ma avrebbe colpito duramente l’avversario. E ai funerali, in lacrime, Amadei è straziato. Se avesse calciato addosso a Bacigalupo, avrebbe fatto gol. Il portiere granata sarebbe finito all’ospedale, però avrebbe salvato tutta la squadra.
Lo stesso pensiero che accompagnerà Benito Lorenzi per il resto della sua vita.
“Perché non ho anticipato l’uscita del portiere? Perché quel tiro anziché in porta è finito sul fondo? Non potevano passarmelo meglio, i compagni, quel pallone?”
Quante volte “Veleno” si alzerà in piena notte come in preda a un incubo. Proprio quel giorno Bacigalupo doveva disputare la partita perfetta? Sarebbe bastata un’incertezza, anche minima. Nessuno gli avrebbe rimproverato nulla, visto tutte le parate che aveva fatto. E Lorenzi avrebbe giocato chissà quante partite al fianco del suo amico Valentino, in nazionale e magari anche nell’Inter. Rimpianti, rimorsi.
Ma Benito Lorenzi a un certo punto smetterà di disperarsi. La sua attenzione sarà tutta per i figli di Mazzola, Sandro e Ferruccio. Sa di avere un debito da saldare. Diventerà per loro una sorta di secondo padre, passerà a prenderli in macchina e li porterà allo stadio. Sandro, in particolare, promette bene. E allora Lorenzi si prenderà tutto il tempo per insegnargli i trucchi del mestiere. Il resto è storia nota a chiunque mastichi calcio: quindici anni dopo Superga, l’Inter vincerà la sua prima Coppa dei Campioni battendo in finale il Real Madrid. Sandro Mazzola segnerà due gol e alla fine il grande Ferenc Puskas gli sussurrerà in un orecchio parole meravigliose:
“Ho giocato con tuo padre e posso dirti che sei degno di lui”.
In quel momento, forse, Benito Lorenzi avrà fatto pace con la sua coscienza.