Senza scomodare Freud che ha dedicato una vita di studi al rapporto padre-figlio, il tennis negli ultimi giorni ha riportato alla ribalta un tema dibattutissimo da sempre. Tutti, ma proprio tutti, abbiamo molto pensato alla frase dell’eroe popolare Jannik Sinner al microfono della Rod Laver di Melbourne dopo il trionfo agli Australian Open: “Grazie ai miei genitori, mi hanno sempre lasciato libero di scegliere”. Bello, molto bello, ma anche insolito che un ragazzo di appena 13 anni fosse già così maturo da prendere una decisione così importante, tagliando l’ombelico con casa e trasferendosi alla Piatti Academy di Bordighera. E gli affetti, l’istruzione, il futuro? Pur scortandolo con gli angeli custodi Massimo Sartori e Alex Vittur, i signori Sinner, papà Hanspeter e mamma Siglinde, hanno avuto questa forza nel liberare verso i suoi sogni l’unico figlio naturale. Forse favoriti dall’ignoranza della materia sportiva, forse troppo impegnati nel lavoro di tutti i giorni in baita e di tutta una vita, forse rafforzati dalla concretezza che è propria della gente altoatesina. Sicuramente rassicurati proprio dalle caratteristiche uniche di Semola che era destinato ad estrarre la spada dalla roccia del tennis italiano e mondiale. La storia, però, soprattutto nello sport, ci insegna il contrario: i genitori tendono a difendere, proteggere e seguire i figli, aspiranti campioni più o meno credibili, commettendo errori più o meno decisivi. L’ultimo caso che salta agli occhi è quello di Stefano Tsitsipas e del suo immancabile papà Apostolos.
IDENTITA’
“Io e mio padre abbiamo sempre avuto il tennis come elemento in comune, era qualcosa di nostro, che abbiamo sempre condiviso. Quando non è con me, mi sento come se una parte della mia identità di giocatore andasse perduta. In diverse occasioni in passato non era con me e mi sentivo come fossi la metà del giocatore. A volte forse non gli parlo molto bene, ma è l’unica persona che mi capisce e questo fa parte del lavoro. La cosa positiva è che possiamo separare il ruolo di padre da quello di allenatore“. Così ha dichiarato il dio greco del tennis che, a 25 anni, pur essendo salito al numero 3 del mondo (oggi è 10), con dieci titoli ATP vinti e due finali Slam mancate, non ha realizzato compiutamente il potenziale tecno-fisico di primissima qualità. Il perché, per alcuni va ricercato nella faretra di opzioni troppo vasta, dal quale non sempre il bell’atleta di Atene di quasi due metri sa scegliere la freccia giusta al momento giusto. Un po’ come succedeva agli inizi a Roger Federer e come oggi succede – in parte – a Carlos Alcatraz. Molti però motivano questa incompleta esplosione, che soprattutto l’ultimo dei Fab Four, Novak Djokovic, mette particolarmente in evidenza nei confronti diretti, con la scarsa determinazione di Stefanos. Forse poco motivato, o poco abituato a rischiare, ad andare oltre, a farsi male per davvero. Proprio perché protetto dall’onnipresente papà-allenatore-
CONDANNA
Vero/non vero? Dapprincipio, lo spogliatoi ha preso in antipatia Apostolos, peraltro insistente suggeritore a bordo campo durante i match e stratega delle famose, lunghissime, fughe negli spogliatoi di Stefanos per i famigerati time-out toilette. Poi – cosa ancor peggiore – ha accettato la cosa, facendo spallucce, guardando con sempre crescente commiserazione quello che, insieme a Sasha Zverev, sembrava il prescelto per l’eredità della triade Federer-Nadal-Djokovic. E’ stata la condanna peggiore, una lettera scarlatta che accompagna Tsitsipas come perdente, come succube, come emanazione di qualcun altro, come l’eterno ragazzo immaturo che ha ancora bisogno dei genitori perché non sa risolvere da sé i suoi problemi.
MAMMINA
Chissà, magari l’affetto del figlio di Grecia per i genitori è troppo forte e intimo. Ed è comunque giusto che sia lui a decidere la propria vita e la propria carriera. Forse la collega Paula Badosa che è entrata nel suo cuore l’aiuterà, forse no. Quel che è certo è che Stefanos ha provato più coach, ma è sempre tornato con papà, ha sempre cercato papà, ha sempre parlato solo con papà. Che lo conosce e che l’ha accompagnato sin di primi passi nel tennis. E, come sappiamo, un giorno, in Italia, gli ha pure salvato la vita in mare. La sua storia somiglia molto a quella di Michael Chang che non solo si accompagnava ovunque con la terribile mamma Betty, che gli preparava personalmente i suoi intrugli dietetici e faceva la macuba agli avversari. Mammà era talmente onnipresente che quel teppista di Andre Agassi – poi santificato attraverso l’autobiografia Open scritta ad arte da un premio Pulitzer ma mai sdoganato dal suo mondo che lo conosce bene – ogni volta che lo incrociava, irrideva pubblicamente il coetaneo, gridando, sussurrando, canticchiando: “Mammina, mammina”. Anzi, invece di chiamarlo Michael lo chiamava direttamente “Mammina”. Un po’ come sta succedendo oggi a Tsitsipas junior, in quella giungla del tennis professionistico. Ahilui!
Vincenzo Martucci (Tratto da supertennis.tv)