Sembrava fuori posto. Fuori posto e fuori tempo. Sembrava un oplita prelevato dall’antica Grecia e trasferito su Startrek, o un triceratopo estratto dal Cretacico e scaraventato nel 2.0, o una draisina senza pedali e senza freni allineata al pronti-via con biciclette in carbonio e ruote lenticolari. Che cosa ci faceva in campo Guglielmo Palazzani, detto Gullu, rugbista d’altri tempi, al Sei Nazioni del 2019?
Sabato scorso, a Murrayfield, tempio ovale di Edimburgo, Scozia-Italia, primo turno del torneo che rallegra la vita, allunga i sogni e accorcia i colli. Nella formazione italiana, all’ultimo momento, nel riscaldamento s’infortuna Tito Tebaldi, il mediano di mischia azzurro, e al suo posto, maglia numero 9, entra lui, Gullu. Fisico tracagnotto, un metro e 73 per 82 chili, volto rotondo, faccia rassicurante, barba ma non alla moda. Potrebbe essere un ragioniere, un salumiere, un sacrestano. Invece è il regista, lo stratega, l’uomo che comanda gli energumeni della mischia e ispira i cavalieri dei trequarti. Se fosse calcio, il Falcao, il Pirlo, il Verratti della situazione. Ma qui il pallone è bislungo.
Il match finirà 33-20 per gli scozzesi, e solo perché a una decina di minuti dalla fine i blue Navy(grigi nella circostanza) decidono di rientrare – si fa per dire – nello spogliatoio e lasciano il campo agli italiani, che così segnano finalmente tre mete. La prima è firmata proprio da Gullu: è il 71’, Palazzaniraccoglie un primo pallone da una rucke lo gioca aprendolo, ne raccoglie un secondo e, a un paio di metri dalla linea di meta avversaria, stavolta lo gioca per sé, s’incunea fra tre scozzesi grandi e grossi, e con un guizzo di istinto, potenza, tempismo, abilità, spontaneità, porta il pallone oltre la linea di meta, schiacciandolo (a dire la verità: è lui a essere schiacciato, pallone compreso, dai tre bestioni) a terra. Meta. In mezzo ai pali.
Ma non c’è solo la meta. C’è che Palazzani sa giocare a rugby. Lo respira e lo abita, lo mastica e lo rumina, lo conosce e lo riconosce, lo esplora e lo inventa, lo vive. C’è che Palazzani la sa così lunga che potrebbe giocare – fisico permettendo – in miniera come pilone, sui grattacieli come seconda, nelle praterie come terza. E non è detto che non lo abbia fatto. Ventotto anni da compiere, Gullu – non ce ne voglia: lo scriviamo con infinito affetto e gratitudine – ne dimostra di più. Ma tutti gli autentici rugbisti dimostrano più anni di quelli dichiarati sulla carta d’identità. Nato a Gardone Val Trompia, regno bresciano del tondino, cresciuto (non tantissimo, ma che importa) nel Fiumicello (se si chiamasse Little River, o Creek, sarebbe più “trendy”), conquistato uno scudetto nel Calvisano, Gullu è il primatista di presenze nella franchigia delle Zebre, tra Celtic League e coppe europee. Ed è stato azzurro nell’Under 19, 19 e 20, poi nella Nazionale A (o Emergenti), quindi nella maggiore (dove i risultati, da anni, purtroppo,sono minori). Quella contro la Scozia era la sua ventinovesima presenza e la sua seconda meta. La qualifica di “utility back” sembra degna di quei geni capaci di riparare frigoriferi, costruire comodini e sistemare rubinetti. E per lui è esattamente così. Sa stare anche non al suo posto, e se la cava sempre.
Palazzani è la risposta umana al rugby dell’alta qualità, dell’alta intensità e dell’alto livello. E’ la scienza imparata sulla strada, che nel rugby sono i campi di patate, i campi senza erba, i campi all’ombra dei campanili, i campi con le dimensioni non regolamentari ma condonati altrimenti non si giocherebbe più, i campi dove la prima pioggia di settembre crea una pozzanghera che si estingue soltanto a maggio. Palazzani è la dimostrazione che non esistono solo gli accademici, i palestrati, i tatuati e i ramificati (aminoacidi, e fermiamoci lì). Palazzani è, nella gerarchia, il quarto mediano di mischia dell’Italia (dopo Gori, Violi e Tebaldi, salvo infortuni). Palazzani è tutti noi.