Diffidate dell’uomo qualunque, con un cognome qualunque, una storia qualunque. Lloyd Harris, 24enne di Cape Town, Sud Africa, con quell’aria da Pippo, ciondolante e sognante, alto 1.93 per 80 chili appena, ha servizio-dritto ma anche la spensieratezza di Guga Kuerten che infiammò la terra rossa del Roland Garros e non solo.
Così, mentre i riflettori puntano sempre su qualcun altro, lui che s’è fatto pian pianino, partendo dai tornei Future in Egitto, Mozambico, Nigeria, Sud Africa e Zimbabwe, lui che ha debuttato sull’ATP Tour nel 2017, lui che ha cominciato a vincere qualche partita appena nel 2018, lui che è entrato nei top 100 nel 2019, lui che ringrazia sentitamente il lock down (“Ho fatto la miglior preparazione fisica di sempre perché spesso rincorrevo dopo qualche infortunio e rimandavo sempre una serie di lavori per fortificarmi”) del 2020, sulla scia del colpaccio contro Rafa Nadal a Washington, si presenta per la prima volta ai quarti in uno Slam.
E, a dispetto del suo appena numero 46 del mondo, è gasato a mille per gli scalpi di Khachanov, Escobedo, Shapovalov ed Opelka che può sbandierare in faccia al prossimo avversario, Sascha Zverev. Che è suo coetaneo e conosce dai tempi juniores e col quale ha perso due volte su due da pro, anche ultimamente al Masters 1000 di Cincinnati.
Infatti, dopo quel 7-6, ha rifilato un chiaro 6-4 6-1 6-3 all’americano, realizzando il terzo risultato a sorpresa dalla campagna sul cemento di Flushing Meadwos. “Finito il match mi sono sentito molto sollevato: sul 5-4 ho infatti servito per chiudere il primo set, e ho infilato tre doppi falli. ‘Non mi è mai successo, mai!’, ho detto al mio coach in tribuna. Ho ancora tanto lavoro da fare in quel senso, ma ho saputo allontanare la pressione: giocare contro Reilly può essere frustrante, ma sono riuscito a mantenermi composto”.
Harris ha il senso della storia: “Nel mio paese abbiamo una lunga e importante tradizione in tanti sport, è una grande nazione sportiva. Il tennis è sempre stato uno dei nostri sport più forti, direi. E l’ultimo campione, Kevin Anderson, è stato un bell’esempio, un simbolo cui mi sono ispirato e col quale sono in ottimi rapporti. Io personalmente ho dovuto rinunciare a tanti sport che mi piacevano ed ho amato, a cominciare da quelli di squadra, quando ho scelto il tennis a 15-16 anni. Sulla spinta del mio allenatore di allora e di sempre, Anthony Harris”.
Diffidate dei nomi qualunque, coach Harris ha dato a Lloyd buoni fondamentali, come i suoi colpi. Al ragazzo cresciuto spensierato, all’aria aperta, negli immensi spazi del suo Sud Africa, serviva un po’ di malizia, che in francese suona un po’ come “malisse”, guarda caso, il nome del super-coach che ha affiancato l’allenatore-chioccia.
E il belga di scuola Usa, Xavier Malisse, già numero 19 del mondo con tre titoli e l’acme della semifinale a Wimbledon 2002, non è stato uno qualsiasi ma il classico talento irrealizzato. “Ha avuto un’enorme influenza nel team: ha così tanta esperienza, così tanto da insegnare … È stato in queste situazioni molte volte. Era un giocatore fenomenale. Ora può aiutarmi nella transizione per diventare un giocatore migliore”. Che ha convinto Rafa a chiudere anzitempo la stagione.
Vincenzo Martucci (tratto da supertennis.tv)