Amelie Mauresmo è una di noi: una che ha sofferto e vive le emozioni, una che s’è fatta le ossa e, ferita dopo ferita, partendo dalla sua piccola Saint-Germain-en-Laye, è arrivata fino al numero 1 del mondo e a due trionfi Slam, una che ha fatto outing, una di personalità, una del tennis. Quando Gilles Moretton, uno che a sua volta si è fatto da solo, da giocatore a organizzatore a business man a dirigente, è salito sul trono della Federtennis francese – malata di ricchezza come Versailles dell’ancien régime, ma sempre puù povera di idee manageriali e risultati agonistici -, ha deciso che come direttore della reggia, il Roland Garros, non voleva più un elegante esecutore ma una Giovanna d’Arco, passionale e pericolosa, epperò anche creativa e trascinatrice. Così sono i capi illuminati. Magari convinti dall’esempio degli amici yankees che, a loro volta, hanno scelto una donna, Stacey Allaster, come direttore dello Slam nazionale, gli US Open di New York.
Amelie, 42 anni, è stata l’unica credibile risposta, vent’anni dopo, al tennis-champagne di Martina Navratilova, un tennis difficile, fatto di rovescio a una mano, servizio e discese a rete, dall’equilibrio labile e tardivo, ma dai risultati entusiasmanti, così com’è stato eccitante diventare la prima coach-donna di un Fab Four – il femminista convinto Sir Andy Murray – , e oggi, da dirigente, gestire i 200 milioni di euro l’anno fatturati dal più importante torneo sulla terra rossa: una gigantesca macchina da denaro griffata dal merchandising che dà lavoro a circa diecimila persone e mette in palio ogni anno oltre 30 milioni, richiamando 500mila spettatori, con un indotto sulla città di circa 300milioni.
Amelie sa quant’è dura la via del successo. Nel 1996, quando vinse Roland Garros e Wimbledon under 18 e diventò numero 1 di categoria, sembrava inarrestabile nel passaggio fra i pro, ma nel 1999, quando superò la numero 1 WTA, Lindsay Davenport, nelle semifinali degli Australian Open, pagò caro il suo outing troppo eclatante: a 19 anni si buttò felice fra le braccia dell’amante, la 31enne Silvie Bourdon, ringraziandola pubblicamente per averle dato, col suo amore, una forza decisiva nel tennis. Le polemiche, le stilettate dell’americana e della finalista, Martina Hingis (“Guardate, quanti muscoli, è un mezzo-uomo, ha anche la fidanzata…”) la schiacciarono, anche se formalmente rispose alla grande (“Questi commenti mi sembrano un po’ stupidi”), in realtà accusò il colpo: “Fu dura, molto dura. Non ho mai rimpianto quella scelta, ma avrei potuto farlo in modo più soft. Non potevo immaginare che impatto che avrebbero avuto le mie parole. All’improvviso mi sono trovata tutti gli occhi su di me e ho avuto questioni familiari per niente facili da gestire”. Tanto che il padre non volle più rivederla fin quasi in punto di morte, nel 2013.
Amelie però è forte, molto forte. Continuò a vincere e restò in alto, tornò alla ribalta Slam solo nel 2002 con le semifinali degli US Open, e poi pian pianino, in tutti i grandi tornei, su tutte le superfici, avvalorando la salita al numero 1 della classifica nel settembre 2004, e quindi ai trionfi agli Australian Open e a Wimbledon 2006. Lì ha raggiunto l’acme, poi, quasi in parallelo col suo idolo Yannick Noah, s’è spenta nei suoi ardori, fino al ritiro del 2009. Poi è stata coach del troppo imprevedibile Michael ladra, ha corso la maratona di Londra 2010 in 3 ore 40 minuti 20 secondi, è stata squalificata in doppio misto insieme al su assistito al Roland Garros 2011 perché non s’era registrata all’antidoping, ha condotto in vetta Vika Azarenka, ha accompagnato il primo Slam di Marion Bartoli, ha lanciato primi miglioramenti di Murray, ha guidato la nazionale di Fed Cup, è diventata madre una prima e poi una seconda volta grazie a un anonimo donatore, è stata capitano di coppa Davis, ha portato l’altro francese Loucas Pouille alle prime e uniche semifinali Slam a Melbourne. Insomma, ha sempre vinto. Chi meglio di lei poteva prendere il timone del comando ed accettare la sfida del tennis francese che vuole prepotentemente rialzare la testa?