Luton Town è roba da stropicciarsi gli occhi per lo stupore. Un buon regista potrebbe tranquillamente girare in questi vicoli e viuzze un adattamento cinematografico di “Hard Times”, romanzo di Charles Dickens pubblicato nell’estate del 1854. Ovunque si rivolga lo sguardo non si può che emettere un sospiro di sollievo e pensare che, in fondo, la provincia, con annesso il suo amplissimo sostrato culturale, ha proprio una gran pellaccia da lupo di mare consumato ed è dura a morire. E questo vale anche in un paese, l’Inghilterra, in cui negli ultimi anni sembrava si fosse imboccata una strada contraria, un lungo boulevard composto di sole scintillanti vetrine e brand internazionali, che poco o nulla avevano a che fare con la gente del luogo e il suo vissuto. Una direzione che aveva suscitato inquietudine: se per Schopenhauer la vita è un pendolo che oscilla tra la noia e il dolore, il calcio inglese vede il proprio tempo ondeggiare tra lo snaturarsi e il preservare gelosamente le sue forme più pure, rappresentative. Luton Town, città più importante della contea meno celebrata d’Inghilterra, il Bedfordshire, rientra a buon diritto in questa categoria.
Una cittadina di duecentomila anime composta da sacche di “arretratezza”, la tavola fredda dentro la piccola stazione che apre e chiude in base al traffico ferroviario, e isole di modernità, Starbucks è arrivato anche qui. Un tempo si producevano cappelli, soprattutto per signore. Oggi, le vestigia di quella tradizione manifatturiera ottocentesca rimangono nello stemma della squadra di calcio locale e nel soprannome dei suoi tifosi: “The Hatters”, “i Cappellai”. Il centro commerciale è il punto nevralgico della cittadina. La novità e le mode da queste parti arrivano dal cielo: Luton Town è famosa soprattutto per il suo aeroporto, uno dei quattro hub disponibili per permettere ai turisti di raggiungere Londra, distante 50 chilometri. Una sorta di porto di mare del XXI secolo.
Il resto della città è composto da file e file di case vittoriane dagli enormi finestroni. Abitazioni popolate da generazioni e generazioni di immigrati: in principio giunsero gli irlandesi impiegati presso la Vauxhall Motors, fabbrica di automobili che in seguito attirò operai sia da ogni parte del Regno Unito che dal lontano Pakistan. La Luton di oggi è infatti una piccola Islamabad con sprazzi di Dublino alla Oscar Wilde. Minareti, moschee, negozi che vendono prodotti tipici, baracchini di frutta fresca e il profumo di curry che si diffonde per le vie insieme alle note di una canzonetta dall’accento inconfondibilmente irlandese.
La città porta ancora in grembo i segni della crisi e gli strascichi della povertà dovuta alla deindustrializzazione. Gli affitti delle case sono tra i più bassi del Regno Unito, con una media di 750£ si trovano appartamenti da due/tre camere da letto; a Londra al massimo si affitta una stanza. Una cittadina che per vocazione non può che essere grigia e nel suo ecclettismo disordinato un po’ decadente, sciatta. Tentare di modificarne i connotati, però, vorrebbe dire corrompere l’animo di un paese che sa, in ogni caso, divertirsi. Il carnevale di Luton, ad esempio, è uno dei più grandi d’Europa e attrae ogni anno un gran numero di visitatori che si mischiano agli abitanti del posto. Si tiene il giorno prima dell’ultimo lunedì di maggio.

A parte quanto scritto fino ad ora, non ci sono molte altre cose davvero eclatanti sulla città, eccezion fatta per lo stadio. Un impianto, il Kenilworth Road, che è riconosciuto all’unanimità come il peggior stadio di tutto il Regno Unito, ma che gli appassionati del calcio di sua Maestà impareranno presto a conoscere molto bene. L’anno prossimo, infatti, il Luton Town giocherà in Premier League: battuto in finale playoff di Championship il Coventry City. Una notizia sensazionale non soltanto per la scalata degli “Hatters” dai dilettanti alla massima serie inglese in soli nove anni, ma soprattutto per le condizioni in cui versa lo stadio e per le dimensioni del club stesso. In effetti, però, dare rilievo a uno solo di questi elementi risulterebbe riduttivo. La bellezza di questa impresa, infatti, è data dalla somma di tutti questi aspetti, che ci mostrano, come un plastico tra le mani di Bruno Vespa a “Porta a Porta”, il modo in cui è organizzato il calcio inglese e quanto riesce a valorizzare ogni club nonostante disparità economiche alle volte paradossali.
In origine la squadra dei cappellai tirava calci al pallone in Dunstable Road, terreno poi venduto in fretta e furia dal proprietario ad una cordata di imprenditori per la costruzione di un’area residenziale. La dirigenza del Luton Town si era trovata improvvisamente con la prospettiva di non avere più un posto dove giocare e aveva immediatamente trovato la soluzione di Kenilworth Road, a poco più di un chilometro dalla stazione ferroviaria e dal piccolo centro storico cittadino. Era il terzo stadio di casa per un club fondato solo vent’anni prima, e si mostrava con alcuni dettagli di sapore tardo-ottocentesco: la tribuna ospitava un settore dedicato ai giornalisti ed era abbellita da un grazioso balconcino sul tetto per i nobili e i dirigenti del club. Il Luton Town ai tempi era un club semi-professionistico, ma nel 1920 conobbe la Football League e lo stadio fu lentamente adeguato al nuovo livello di calcio richiesto.
La Main Stand, la tribuna principale, fu completata nella stagione 1922/23 mentre l’affluenza media alle partite casalinghe era di cinquemila spettatori. Nella seconda metà del XX secolo, l’impianto fu migliorato alla bisogna: nel 1953, ad esempio, vennero installati i riflettori, sfoggiati per la prima volta in occasione di un’amichevole contro il Fenerbahce. Lo stadio, nel frattempo, aveva già preso quasi la forma odierna e poteva accogliere fino a trentamila persone.
Sono anni in cui il Luton fatica a essere competitivo ad alti livelli. Fra il 1955 e il 1965 precipita dalla Prima Divisione fino alla Quarta per poi risalire nei nove anni successivi. Lo yo-yo di retrocessioni e promozioni si arresta a metà anni Novanta. Di conseguenza nel corso degli anni precedenti arrivano alcuni interventi di ammodernamento, fra cui la costruzione di un settore di tribuna obliquo che completava l’angolo sud-est, e la ricostruzione della tribuna laterale Bobbers Stand, trasformata in palchi e box executive, donandole quasi l’aspetto di una tribuna-condominio.
Con la nascita della Premier League e il declino del club, Kenilworth Road ha iniziato a essere più un feticcio per appassionati e curiosi che un posto dove gustarsi calcio inglese. Dopo un paio di ultimi squilli in Championship (2005 – 2007), il Luton Town ha affrontato la tragedia del fallimento e della ripartenza dal semi-professionismo, fino alla risalita culminata con il balzo in Premier League al termine di questa stagione.

Intanto, chi si recava a Kenilworth Road, continuava a prendere posto tra seggiolini in legno, settori con panche senza schienale o curve con posti in piedi e, se forestiero, a entrare attraverso il famoso e pittoresco ingresso fra le case per il settore ospiti della Oak Road End. Un ingresso per il pubblico che interrompe la monotona sequenza di porte d’ingresso delle abitazioni del quartiere lungo Oak Road, la via sul lato nord-ovest dell’impianto.
Incolonnati come una scolaresca lungo il marciapiede per i controlli, i tifosi camminano poi verso un piccolo cortiletto interno e salgono alcune rampe di scale dalla ringhiera blu posizionate dietro la tribuna, guardando direttamente sopra i “back garden” dei residenti, per poi posizionarsi sotto la tettoia in gradinata e prepararsi ad assistere alla partita. Sono scene da calcio d’altri tempi, quadretti vittoriani che a Manchester o a Liverpool non vedono più da decenni e che l’anno prossimo, invece, torneranno bruscamente alla memoria dei loro tifosi più anziani.

Ma come è possibile che uno stadio da 10mila posti scarsi, con ingressi incastrati fra i giardini privati dei residenti e gradinate che sembrano uscite da dagherrotipi, sia in linea con i parametri del campionato più desiderato del mondo?
È possibile soprattutto per un motivo: la capienza minima richiesta per uno stadio di Premier League è di cinquemila posti ed è la stessa che viene imposta agli impianti di tutte le altre squadre della Football League, quarta divisione inclusa. I requisiti davvero stringenti sono sulla parte tecnologica/funzionale, e questa distinzione è importante a livello concettuale.
Il principale obiettivo del movimento calcistico inglese, infatti, rimane quello di preservare il più possibile l’identità di un club, dando la garanzia di giocare sempre in casa anche nel lieto caso di promozione a livelli altissimi e mai raggiunti prima. Si scongiura così l’ipotesi di dover emigrare altrove solo per avere qualche migliaio di spettatori in più presenti nel fine settimana. L’adeguamento degli stadi viene accompagnato attraverso un percorso chiaro e graduale di norme e requisiti, rivolto a tutti i club che si affacciano alla League Two arrivando dal semi-professionismo.
La capienza minima per uno stadio di League Two è 5mila posti ed è uguale per tutte le altre divisioni superiori fino alla Premiership. Per poterla raggiungere vengono stabiliti dunque degli step: una promozione in League Two richiede 4mila posti, da incrementare a 5mila (di cui un migliaio a sedere) entro il primo anno, fino al raggiungimento di una capienza di 5mila (di cui 2mila a sedere) entro i due anni successivi. Nel calcio italiano i regolamenti di capienza minima alla stagione 2022/2023 sono così suddivisi: per la Serie C un minimo di 1.500 posti; per la Serie B minimo 5.500 posti; per la Serie A minimo 12mila posti.
L’approccio della Football League parte quindi dalla volontà di custodia dell’identità dei singoli club e del loro diritto a rappresentare sé stessi e la loro unicità. Gli step di adeguamento strutturale evitano di caricare sulle spalle di una piccola società come il Luton Town l’obbligo di costruire per forza uno stadio sovradimensionato, che comporta una spesa inutile e un fardello per il bilancio.
In vista della stagione 2023/2024 il buon vecchio Kenilworth Road conoscerà ovviamente degli adeguamenti strutturali, e il Luton Town dovrà fare una corsa contro il tempo. In soli tre mesi andranno completati interventi di restyling per dieci milioni di sterline: bisogna adeguare i riflettori, ricostruire la tribuna laterale Bobbers Stand in un vero e proprio settore con spazi per la stampa, area tavola calda, palchi per gli spettatori, sostituire i famosi seggiolini in legno e le panche da sagra di paese e apportare tutte quelle migliorie necessarie a predisporre dirette televisive e l’installazione della VAR a livello Premier League.

L’approdo dello stadio del Luton Town in Premier League non sarà solo affascinante e dal gusto vintage. Quando i tifosi di Liverpool, Manchester United e City, Arsenal e Chelsea prenderanno posto sulle minuscole gradinate di Kenilworth Road, sarà soprattutto la conferma che il calcio inglese, pur con le sue storture, funziona perché ha sempre puntato a valorizzare l’unicità di ogni suo club, nonostante gli enormi squilibri economici interni degli ultimi anni.
In Italia o in Spagna ci si racconta che in vetrina vanno messe solo poche grandi squadre per poter dare valore all’intero prodotto-calcio nazionale. Ma la diversità, le tradizioni e le singole storie possono essere ciò che farà appassionare i tifosi, anche e soprattutto dall’estero. È stato vero per tanti decenni con la centenaria FA Cup, continua a esserlo ora con la Premier League, orco vorace ma amichevole quanto Shrek, anche nei confronti di chi è reduce da una lunga scalata e, entrando allo stadio, rischia di suonare il campanello di una coppia di anziani intenti a sorseggiare un tè.