John Isner ha la faccia da bravo ragazzo, che contrasta con un corpo da gigante: 208 centimetri d’altezza e bombe di servizio da 230 all’ora, ma anche di dritto a 188. E’ educato, gentile, parla bene, è sempre sorridente, e quando deve elencare i suoi segreti parte sempre da lì: mamma Karen. “La chiamo almeno una volta al giorno, anche di più”, ricorda, fra le pieghe di allenamenti, soste ed attese in aeroporto e in hotel della prossima partita, i capisaldi del suo peregrinare da tennista professionista in giro per il mondo. Perché? Perché è molto attaccato alla madre. E perché non potrà mai dimenticare che cos’era successo, nel febbraio 2004, quando aveva mancato all’improvviso i quotidiani appuntamenti telefonici. “Strano, non succedeva mai, anche se ero pienissimo di impegni, fra tennis e studio alla Georgia University. La vita era bella, tutto funzionava a meraviglia, e mamma non chiamava. Resistetti un paio di giorni, poi, svegliandomi, alle 8, al dormitorio, fui fulminato dalla domanda: ‘Che sta succedendo a mamma?’. Aveva 50 anni, giocava a tennis, correva, alzava pesi, aveva sostenuto enormi sforzi per crescere me e i miei due fratelli più grandi… Strano, molto strano. La chiamai e lei mi rispose con voce tremante: “Non volevo farti preoccupare, c’è una ragione per la quale non ti parlo da due giorni, ho il cancro. Non te l’ho detto perché so che nel weekend hai le partite…”.
John aveva quasi 19 anni, e ne sapeva poco di tumori: “Fortunatamente, non avevo fatto alcuna esperienza diretta, ma ecco che all’improvviso scopro che mamma era finita, sofferente, all’ospedale. Pensavano che fosse un attacco di appendicite, e invece avevano scoperto che aveva un cancro al colon, di quarto livello, da asportare al più presto. Rimasi paralizzato sul mio letto, col poster dei Carolina Panthers sul muro, e piansi, piansi a lungo. Meno di sei settimane prima ero stato a casa a celebrare Natale in famiglia, stavamo tutti bene, e tutto era perfetto, e ora potevo perdere mamma…”.
Mentre tornava di volata da Athens alla sua Greensboro, ringraziando ogni volta di aver scelto proprio quell’ateneo perché lontano appena quattro ore d’auto, nella testa di John si affollarono mille ricordi: quando mamma aveva acquistato il frigorifero extra perché lui e i suoi fratelli mangiavano tantissimo, quando mamma lo aveva salvato dalla gogna, la catena della bici, che Nathan gli aveva chiuso al collo, quando mamma lo aveva recuperato sulla strada di casa dopo che il solito Nathan l’aveva abbandonato a piedi per vendicarsi del fratello minore che l’aveva battuto per la prima volta a tennis… Mamma fece sei mesi di chemioterapia, mamma ebbe sempre il conforto dei suoi uomini, mamma soffrì, mamma non voleva più lasciare il letto. Mamma, quando lui la chiamava al telefono, rispondeva sempre: “Sto bene, tutto a posto”. Anche se poi papà gli raccontava un’altra verità. Mamma gli fece una sola richiesta: “Continua a giocare a tennis”. Dandogli una motivazione extra per i suoi successi, anche perché, in primavera, si presentò a tutti i suoi match, nel weekend. Poi John il buono rientrava a casa da lunedì a mercoledì, e tornava all’università gli altri giorni della settimana. Una vita a singhiozzo che sembrava comunque funzionare, fra alti e bassi finché, un’analisi del sangue, nell’ottobre del 2007 non sentenziò che il male era tornato.
John, sostenuto dall’intera università, trasferì i genitori da lui, portò la madre a Chapel Hill per un trattamento del cancro ancor più aggressivo, sei settimane a tempo pieno. “Così mi guardavano giocare quando volevano, e mi seguivano anche nei tornei più vicini, e io ero contento, e ne guadagnavo emotivamente. In tutta la carriera pro, sono stato fortunato a giocare tante partite molto intense, ma non ho mai avuto sensazioni così forti come il dolore che ha dovuto sopportare mia madre. Come mi sono sentito sul 68-68 contro Nicolas Mahut a Wimbledon 2010? Non c‘è paragone. Quant’ero esausto dopo il primo set della finale di Miami quand’ho rimontato e battuto Sascha Zverev ed ho vinto il mio primo Masters 1000? E’ una condizione che non s’avvicina nemmeno a quella che ha passato lei. Proprio sulla spinta della sua esperienza ho contribuito con varie esibizioni a raccogliere 200mila dollari in beneficenza per il Lineberger Cancer Center. Penso spesso a questa gente straordinaria che salva vite umane e a quello che ha patito mia madre. Così, quando soffro io per il caldo in campo o aspetto la mia partita senza sapere quando sarà, vedo tutto nella giusta prospettiva. Io sono fortunato, gioco per vivere e, ovunque sia mamma, a casa o in tribuna, devo sostenerla”.
di Vincenzo Martucci
(tratto da federtennis.it)