La nenia del Muezzin fende l’aria, si insinua nelle case. Ricorda ai fedeli l’obbligo della preghiera, ṣalāt al-ṣubḥ. Mi sveglio e non riesco a riprendere sonno. Sono le 4:30 del mattino di un caldo gennaio dell’87. Dopo tre ore la gente è in strada e io mi rivolto ancora nel letto. Gli uomini vestono i boubou, l’abito tradizionale della Mauritania. Le donne hanno gli chechs, lunghi pezzi di lino avvolti attorno alla testa. Vagano tutti senza una meta. Lo scorrere del tempo assume una diversa unità di misura. Le distanze si misurano in ore di viaggio, non in chilometri.
Al mercato di Atar, appena dietro la piazza principale, la carne sui banchi dei macellai è avvolta da nuvole di mosche che si azzuffano per succhiare più a lungo gocce di sangue. Non si alza neppure una mano per scacciarle.
Poco più in là le donne pestano la polvere che servirà per colorare le tele dei boubou e degli chechs. Tutto attorno è confusione.
Ai tavoli di piccole trattorie offrono cous-cous e riso con carne di cammello. Non so raccontarne il sapore, ogni volta che me lo hanno proposto ho scosso il capo in un gentile segno di diniego.
Fuori dalla città c’è solo sabbia. Il sole martella di giorno e il freddo arriva puntuale la notte. Poi ci sono le mosche. Sono tante, mi sembra siano milioni. C’è poca poesia nel primo impatto con il deserto della Mauritania, Sahara centrale.
Sto correndo incontro alla Parigi-Dakar. Una galoppata di cinquecento chilometri, dieci ore di strada dalla capitale Nuackchott attraverso un panorama che cambia continuamente. Distese sconfinate di sabbia, spruzzate di verde, migliaia di pietre. Poi di nuovo sabbia.
Sono in macchina con due colleghi e un autista del posto. Viaggiamo a una media di 35 kmh. L’autista manovra il volante della Peugeot 504 come se stesse guidando un vecchio camion con rimorchio senza servosterzo. Poi tira fuori dal tascone del boubou un astuccio di cuio. Riempie il bocchino d’argento con una pallina di qualcosa assai simile al tabacco e aspira. Per una decina di minuti quella che era una tranquilla velocità di crociera si trasforma in un’andatura da Gran Premio, poi torna la calma. Fino alla tirata successiva.
Lungo il cammino enormi copertoni, scheletri di auto bruciate. Comincio a fantasticare su quali misteriose storie si possano nascondere dietro quelle carcasse. In una delle soste confido i miei dubbi a un amico. Nessun mistero sono semplicemente le indicazioni per i concorrenti. È tutto segnato sul “road book”. Le auto bruciate sono il ricordo tangibile di imprese sfortunate chiuse con l’abbandono. Della gara e della macchina. Ora quelle auto servono come segnapista.
Incontriamo solo due villaggi in cinquecento chilometri di strada, San Just e Boisson. Case basse, senza tetto. Non piove molto da queste parti. Il vento è l’unica cosa che abbonda.
La macchina procede saltando da una buca all’altra. Non stiamo marciando sul tole oundulé, gli avvallamenti di sabbia alti dai tre ai cinque centimetri che con ritmo regolare tormentano per centinaia di chilometri i concorrenti nel deserto d’Algeria. Però i salti sono abbastanza fastidiosi e il mio rispettabile sedere ha tutto il diritto di lamentarsi. Solo 160 chilometri su 500 sono parzialmente asfaltati. Il resto è sassi e sabbia su piste che il vento nasconde. Finalmente arrivo ad Atar.
René Metge, uno degli organizzatori, confessa un segreto.
“E’ qui che i concorrenti scoprono perché chiamiamo “Inferno” il deserto della Mauritania. E’ nella tappa da Tiddjika ad Atar che se ne accorgono.”
L’ho capito anch’io, non è difficile. Dune alte fino a 400 metri ci si parano davanti. Quando arrivi ai loro piedi o hai la macchina in piena spinta e riesci a passarle, o ti blocchi e resti lì finché non arriva qualcuno ad aiutarti. Se ad accompagnarti c’è la signora sfortuna, arriva anche il vento che ti soffia contro. A quel punto tutto cambia aspetto e tu non sai neppure dove sei. Non ti resta che affidarti alla bussola di bordo. O, se ci credi, puoi cominciare a pregare.
Se hai la jella marchiata sulla pelle, può anche succedere che dopo avere superato l’inferno un animale ti tagli la strada all’improvviso e finisca la corsa tra le ruote della tua moto. Finite entrambi sulla sabbia, se siete fortunati continuerete a vivere.
La corsa ha così tanto fascino da conquistarti al primo impatto, anche se è un’esperienza massacrante. Non ce la fai proprio a odiare la Dakar. Come potresti davanti alle storie che sa raccontare?
C’è gente che si è persa e ha ritrovato la strada giusta seguendo una piccola stella indicatagli dai Tuareg. Chiedete a Batti Grassotti, torinese e unico italiano in gara con una Kawasaki 650.
La Parigi-Dakar è perdersi al bivacco fra migliaia di tende la mattina all’alba subito dopo il briefing. O sentirsi con il morale a terra e la benzina che sta per finire proprio mentre sei in mezzo al deserto. E poi ritrovare il sorriso e la speranza succhiando carburante a un’auto cappottata e ormai fuori gara. Crudele, forse anche spietato. Ma sicuramente utile per salvarti.
Se la prendi per il verso sbagliato puoi pensare che sia un’avventura come tante.
A Lorenzo è accaduto proprio così. Lui è di Rovigo e ha partecipato a un concorso indetto da un’industria di calzature. Primo premio: la partecipazione alla corsa. E’ arrivato secondo, ma il vincitore si è rotto le dita della mano destra a due giorni dalla partenza ed ha rinunciato. Così è stato sostituito da Lorenzo che si è presentato al raduno di Parigi con un materasso e un cuscino. Quando gli hanno spiegato che non era proprio così che si dormiva in pieno deserto, ha cercato di giustificarsi.
“Senza cuscino non riesco a prendere sonno.”
Glielo hanno buttato in strada, perso per sempre.
Con sé aveva un coltello da foresta dell’Amazonia, tipo Jungle Jim. Lama enorme e dentro il manico cavo tutto l’occorrente per la sopravvivenza. Aveva anche gli ami da pesca, utilissimi nel deserto. Gli hanno chiesto perché non avesse portato il machete.
“Era troppo grande, non entrava nella sacca.”
L’hanno subito soprannominato Rambo. Quando l’ho incontrato era giallo per la sabbia, aveva il viso rigato dalla fatica e poca voglia di parlare. Dubito che alla fine della storia continuerà a considerarsi come il fortunato vincitore di un premio.
Questa corsa è anche il mostruoso Daf di Jan De Roy che tutti qui chiamano “L’Olandese Volante”. Quando arriva a sirene spiegate, moto e auto si fanno da parte. Il suo Turbotwin crea ammirazione e scompiglio.
Già l’aspetto del pilota, un gigante dallo sguardo cattivo, contribuisce a provocare tensione. Dicono sia un iracondo. Non ho alcuna voglia di incontrarlo.
Ma non è solo lui a destare sgomento. Il suo Daf con il telaio in lega d’alluminio riesce a suscitare altrettanto timore. La parvenza di carrozzeria si limita alla lamiera della cabina, il resto è in vetroresina. Ha una potenza di mille cavalli, sedici marce e una velocità massima di 200 kmh.
C’è odore di soldi ovunque. La Peugeot ha investito dieci miliardi nell’operazione. Macchine da trecento milioni che corrono in un Paese dove il reddito annuo pro capite è di 600.000 lire. Auto che consumano da fare paura: un litro ogni due chilometri. Marciano a velocità da Formula 1 con punte di 220 kmh e medie vicine ai 150.
Tanti soldi. Ma qui la gente è davvero povera. Te ne accorgi guardando i volti e le gambe dei bambini, la magrezza dei vecchi, i rarissimi negozi, i mercati all’aperto, la gente che cammina a piedi nudi sulla polvere di sabbia. Ne hai la certezza leggendo i rapporti del ministero della sanità francese. La Mauritania è la zona africana con la più alta percentuale di morti per malattie infantili. L’agricoltura offre un reddito striminzito, il commercio non dà vie d’uscita. La corsa regala un momento di allegria, non porta ricchezza e complica la vita.
Un circo infernale di 1500 persone che si spostano freneticamente, troppo veloci per lasciare una traccia.
E’ una gara massacrante. Sbalzi di temperatura che vanno dai 30° del giorno ai 7° della notte, poco tempo per recuperare la fatica, ancora meno per dormire. C’è poi la tensione della guida, gli scossoni, l’accumulo di stanchezza dopo avere guidato per settecento chilometri a ritmi pazzeschi.
Uomini vestiti di sabbia cavalcano moto che somigliano a mostri preistorici. Auto nascoste dagli adesivi degli sponsor volano verso la fine dell’avventura nel deserto. I nuovi eroi vanno a caccia dell’impresa sensazionale ficcandosi a testa bassa nel mistero. Amano i loro mezzi, forse più di quanto pensino di amare se stessi. Passano davanti alle meraviglie dell’Africa senza fermarsi.
Io sono stato scosso dal cielo nel deserto, dalla possibilità di girarmi attorno e guardare sino all’orizzonte senza vedere altro che sabbia, dai colori di quest’Africa povera, dall’unica oasi che ho incrociato lungo il cammino. Immagini di desolato squallore e magica bellezza.
A essere sincero, ho provato meraviglia anche davanti a una Coca Cola ghiacciata pagata cinquanta onguiyas, più o meno mille lire, in uno strano posto di ristoro spuntato dal nulla in mezzo al deserto.
Altri hanno apprezzato col cuore il panorama. Patrick Tambay durante la tappa che portava da Nema a Ridijika voleva addirittura fermarsi per scattare delle foto. Il paesaggio l’aveva stregato. Il navigatore si è opposto. Urla, liti, poi finalmente l’accordo. Patrick continuava a pigiare sull’accelleratore e Lemoyne spingeva il pulsante per gli scatti della macchinetta. Hanno fatto splendide foto e hanno anche vinto la tappa.
Lascio Arat, prossima tappa Nouadhibou. La Parigi-Dakar continua e non posso neppure brindare al suo successo con un goccio di vino. In Mauritania l’alcool è proibito.
*articolo ripreso da https://dartortorromeo.com