Matteo Berrettini è il legittimo numero 1 del tennis italiano, come risultati, come classifica e come esempio dentro e fuori del campo. Chi ha dei dubbi ascolti il botta e risposta sul palcoscenico di ‘The Lions Talk’, un formato creato da uno dei suoi sponsor, la Peugeot, prima del ritorno alle gare, a Cincinnati. Dove rifinisce la preparazione per gli Us Open del 30 agosto, il torneo che ha fatto esplodere il romano a più alto livello con le semifinali del 2019.
Com’è nata la passione per il tennis?
”E’ nata tanto tempo fa: è da quando sono piccolo che gioco, perché tutta la mia famiglia ha sempre giocato, compresi i nonni, anche se nessuno lo ha mai fatto a livello professionistico. Si tratta di una cosa che abbiamo nel DNA, sono nato cresciuto nel campo da tennis, è stato lo sport più semplice da scegliere. Un aneddoto carino: a convincermi a ricominciare a giocare è stato mio fratello Jacopo, che è più piccolo di me come età ma ha cominciato prima di me. Io avevo provato per qualche anno, però non mi era piaciuto più di tanto, ho provato altri sport e alla fine è stato proprio lui a convincermi a riprovare, quando avevo otto anni. Da quel momento in poi non ho più smesso”.
Un mese dopo la grandiosa finale di Wimbledon quali emozioni ti restano dentro?
”Si è trattato di un sogno forse troppo grande che mi porto dietro da quando ero piccolo, ma le cose cambiano. Ho fatto tanti passi in avanti, mi sono impegnato tantissimo per cercare di migliorarmi. Ogni giorno sia in campo che fuori, cerchiamo l’eccellenza, e quindi cerco sempre di essere la migliore versione di me stesso e questo mi ha portato di essere dove sono adesso. Spero che questa prima finale Slam, a Wimbledon, sia un punto di partenza per una carriera ancora più importante. Sono contento di vedere dove sono arrivato finora perché è giusto ricordarsi da dove si è partiti, da quel bambino che sognava di giocare a tennis che aveva tanto piacere a farlo e che non pensava nemmeno di diventare un professionista. Invece, mettendo un mattoncino nuovo, ogni giorno, eccomi qua, adesso: numero 8 del mondo, numero 3 della Race per le Nitto ATP Finals del 14-21 novembre a Torino… Siamo tutti orgogliosi di me: io, la mia famiglia, il mio team”.
La psiche è una componente enorme nel tennis: quando si scende in campo nella finale di Wimbledon contro Novak Djokovic, si prova un po’di paura?
“Si deve avere paura, io quando non ho paura, parliamo di quella paura buona, sportiva, so che c’è qualcosa che non va. Se non sono teso, se le cose vanno troppo serene, se non mi sento quel po’ di mal di testa, c’è qualcosa che non va. Ed è proprio quella paura di perdere e vincere che ci fa fare bene, che ci prepara ad un’eventuale battaglia, a migliorare e queste sono le sensazioni che cerco. Ovvio che preferirei non sentirmi teso, vorrei andare in campo, giocare e basta, ma ho imparato a conoscermi e senza paura sono un giocatore decisamente meno forte di quello che sono con la paura.”
Com’è stato ritornare a giocare davanti ad un pubblico dopo le restrizioni Covid?”
“E’ una delle sensazioni per cui gioco a tennis. Sentire lo stadio che fa il tifo per te, soprattutto, ovviamente, quello italiano, è uno stimolo grandissimo, anche se è un tifo contro di te. Entrare in uno impianto grande e non avere nessun che ti guarda fa una sensazione strana, sembra quasi un allenamento. Risentire invece le voci, vedere la mia famiglia che cerca di incitarmi, è una delle cose bellissime dello sport in generale”.
Che emozioni sono state le visite al Quirinale dal presidente della Repubblica, Mattarella e poi a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio, Draghi?
”Sono emozioni diverse, bellissime, ma diverse da quelle che ho provato in campo contro Djokovic. Innanzitutto, sono un pochino inaspettate, nell’incontrare le due persone già importanti della nostra Nazione. Per me è stato un onore incredibile. Ho avuto l’onore di incontrare il presidente Mattarella anche alla finale degli Europei di calcio, a Wembley. Bisogna sempre ricordarsi da dove uno è partito, anni fa non mi sarei mai sognato di poter fare determinate cose. Me le sono sicuramente meritate però provo mi ripeto sempre: “Oddio, ma sta succedendo davvero?”. Ed è una sensazione veramente bella”.
Prima di entrare in campo hai un rito scaramantico?
”Non li chiamerei riti scaramantici ma sono gesti che mi fanno entrare nel giusto ‘mood’ per la gara. Ad esempio, prima di iniziare, mi riallaccio le scarpe: mi aiuta a concentrarmi. Ma ci sono moltissime altre, cose che mi aiutano a essere pronto, a entrare con la testa nel match”.
Ci sono tanti giovani che giocano a tennis che chiedono cosa fare per arrivare al tuo livello.
”Da quando ho iniziato a giocare a tennis cerco sempre di divertirmi. Poi, ovvio, quando il tennis diventa una professione non può essere solo divertimento, però ti deve piacere quello che stai facendo. Se non c’è quello stimolo è difficile soprattutto perché il tennis è uno sport in cui quando si compete si è da soli. Se non ti piace soffrire per vincere la partita, la vedo dura. Il consiglio è: divertitevi sempre e cercate di sviluppare le vostre caratteristiche personali. La cosa più importante è creare la propria routine ed è proprio grazie a quella che si diventa più forti”.
Che cos’hai provato nell’assistere alle imprese degli azzurri all’Olimpiade di Tokyo? Anche per te le Olimpiadi sono un grande punto di arrivo?
“Quello è stato sicuramente il momento più buio di questa stagione. Pochi giorni prima del via ero convinto di partire, poi però ho fatto una risonanza ha rivelato una lesione al vasto mediale che mi sono procurato durante la finale con Djokovic. Già in semifinale, avevo una piccola lesione al muscolo ma, si sa, in finale, si gioca anche da zoppi. Perciò, ho sforzato, sono andato oltre e così non sono riuscito a recuperare. Ho sempre guardato le Olimpiadi, ho continuato a farlo anche da casa e ho sempre voluto parteciparvi. Quelli che mi conoscono bene sanno quanto ho sofferto per quella mancata partecipazione. Io sono uno che pensa al futuro quindi già ho la testa a Parigi, ai prossimi Giochi fra tre anni. Ma per me è stato un grosso colpo: per parecchi giorni sono stati giù di morale, non l’ho digerita benissimo. Sono sicuro che questa cosa mi darà stimolo per il futuro, come è già successo in passato”.
La tua fidanzata, Ajla Tomljanovic, tennista professionista anche lei, è più orgogliosa o più gelosa di te?
”Ci scherziamo spesso su questa cosa. Siamo entrambi abbastanza gelosi, ma in senso buono. Credo sia più orgogliosa che gelosa. Anche lei ha ottenuto dei grandiosi risultati quest’anno e siamo solo orgogliosi dei nostri traguardi. Credo che lei pensasse che fossi un bel ragazzo anche prima, altrimenti non si sarebbe messa con me, quindi va bene così”.
Perché quando fai un punto ti inciti in spagnolo dicendo “Vamos” e non il nostro “Andiamo”: come mai?
“Mi sono fatto questa domanda anche da solo, riguardando le partite. Ho in mente qualche motivazione: quando ero più piccolo dicevo “Vamo”, un mix ispano-romano; inoltre mia nonna è brasiliana e dice “Vamos”, in portoghese. Il “Vamos” mi sembra più caldo, ma in realtà mischio un pochino, dico anche “Alé” e “Forza”. C’è anche il fatto che il mio fisioterapista è spagnolo… Però, in realtà, non ho una vera spiegazione. So solo che ultimamente sta funzionando quindi non lo cambio”.
Come sei finito su quell’autobus che girava per Roma con la nazionale Italiana di calcio che aveva vinto gli Europei?
“Stavamo a palazzo Chigi e i calciatori mi hanno invitato salire sul bus con loro. Io mi sentivo un po’ a disagio, non sentivo fosse tanto la mia festa: avevo fatto un gran risultato, certo, ma in fin dei conti avevo comunque perso. Ero piuttosto titubante, ma poi è arrivato Chiellini con la coppa e mi ha trascinato su. La gente mi ha visto lì sopra, ha cominciato a gridare il mio nome, a cantare e ho deciso di godermi questa esperienza. È stato veramente pazzesco”.
La tua finale di Wimbledon è stata vista da oltre 4 milioni di italiani. Si tratta di un risultato pazzesco, addirittura rivoluzionario per una partita di tennis. Nel nostro paese quando un atleta che non sia un calciatore ha una popolarità da calciatore significa che è successo qualcosa di davvero incredibile.
“Me ne sono accorto. Quando eravamo a Palazzo Chigi non riuscivamo ad uscire perché dovevamo fare moltissime foto e autografi. Ad un certo punto ci hanno scortato fuori, e mi sono accorto pienamente della situazione. È ovvio che rimango sempre quel ragazzo che pensa: “Oddio, ho davanti a me Mattarella e al mio fianco c’è Mancini, quel Mancini che guardavo sempre in televisione”. Quindi, essere “uno di loro” mi fa sempre un certo effetto. È anche vero che è ora di guardarsi davanti allo specchio e dire: ‘Matteo, sei arrivato in finale a Wimbledon quindi queste situazioni sono normali”. Quindi sì, sono consapevole di quello che ho fatto, anche se resto ancora incredulo. Mi sono accorto che girando per strada i selfie sono aumentati ed è un qualcosa che fa davvero piacere, anche perché con essi si accompagnano sempre frasi stupende, che alla fine della giornata sono le cose che ti rimangono. Come: “I miei figli ti adorano”, o “Mi hai fatto ricominciare a guardare il tennis’, oppure “I miei figli vogliono giocare come te”. E’ vero i trofei, è vero tutto ma sentirsi dire che migliaia di persone hanno visto qualcosa di più di uno che colpisce una pallina da tennis vuol dire che ho raggiunto il mio obiettivo”.
“In queste cose non bisogna avere fretta. Anche se sono giovane, ho già avuto parecchi infortuni, e so che l’unica cosa necessaria è la calma, quindi ho preso tutte le precauzioni del caso. Anche se la voglia di tornare in campo è sempre grande così come quella, di portare l’orgoglio italiano ancora più in alto”.
Un tuo piccolo fan scrive: “Ciao Matteo, sono Gabriele, ho dieci anni e sono un tennista grazia a te”.
”Queste sono le cose che mi fanno venire i brividi. Ci tenevo anche a ringraziare le persone che mi seguono e mi scrivono, non ho mai il tempo sufficiente per rispondere a tutti, per far sentire loro la mia vicinanza, come loro la fanno sentire a me. Ho letto i messaggi di tutti quelli che mi hanno detto che da settembre cominceranno a giocare a tennis perché mi hanno visto giocare, e mi hanno chiesto consigli per la giusta racchetta. Sono tutti messaggi che mi fanno piacere. Continuate a seguirmi, perché vi prometto che non è finita qua”.
C’è qualcosa che ancora ti manca per completare questo percorso di crescita?
”Se non ci fosse sarebbe preoccupante. Mi piace migliorarmi, sentire che c’è margine, io sento che c’è margine, non incredibile, ma c’è. Quando si arriva ad una certa classifica, si parla più di dettagli, ci sono sempre piccole cose che vanno cambiate, migliorate. Ad esempio, a me manca un po’ di esperienza. Djokovic ha giocato 30 finali in uno Slam, mentre per me era la prima. Si tratta di un fattore determinante. Quando si è un campo non è tanto il diritto e il rovescio ma come gestire i momenti, la situazione e sicurante Novak ha più esperienza di me. Spero di arrivare ad avere quel livello di esperienza… Anche un pochino di meno andrebbe bene“.
Se Matteo Berrettini non avesse fatto il tennista cosa avrebbe fatto?
”Se avessi avuto 10 anni ti avrei risposto subito biologo, perché amo da sempre gli animali: da piccolo guardavo sempre i documentari, mia madre spegneva la televisione perché ne guardavo troppi. Una delle cose che ho sempre voluto fare, ad esempio, è vedere i gorilla, in Africa. Sono cose che mi intrigano. Se vogliamo essere più realistici e dimenticarsi il sogno, è più complicato perché da un determinato momento della mia vita ho sentito che il tennis fosse la mia strada e non ho mai pensato ad un’altra professione. Mi piace stare a contatto con le persone, e quindi, forse avrei potuto insegnare, non a scuola, non so in che ambito, ma in generale credo potrei essere buon allenatore di tennis, non so se lo farò, ma potrei essere bravo. Dai, rimaniamo con l’alternativa del biologo”.
Vincenzo Martucci (tratto da supertennis.tv)