Gli Open d’Australia hanno segnato probabilmente il passo più importante verso il
futuro del tennis. E qui non si parla dei risultati agonistici, ma della fondamentale
innovazione del controllo elettronico che ha eliminato i giudici di linea. Finalmente,
verrebbe da dire, perché in questo modo si eliminano definitivamente tutti gli errori,
le polemiche, le scuse, le perdite di tempo, i piccoli imbrogli legati alle chiamate
“tattiche” dell’occhio di falco e così via. In più, se si continuerà così anche dopo la
pandemia da covid, c’è la fine dei raccattapalle usati come schiavetti che devono
portare l’asciugamano ai giocatori: si è visto che possono andare a prenderli da soli,
che si diano una mossa anche in futuro. Di ancora indefinito e potenzialmente
pericoloso per il regolare svolgimento della partita e il rispetto dei principi sportivi
rimangono solo due cose: i bluff dei giocatori che fingono infortuni e il potere
assoluto dell’arbitro di sedia che non può più fare l’overrule sulle decisioni dei
giudici di linea, visto che non esistono più, ma può ancora esercitare una influenza
determinante con i provvedimenti disciplinari, tante volte viziati da sindrome del
padrone del mondo, da antipatie personali o, il peggio, da puro e semplice razzismo,
e qui gli esempi non sono proprio pochi.
Per la verità, una anticipazione di questo genere si era già avuta con le Next Gen Finals e con il World Team Tennis, ma lì si trattava ancora di un
esperimento, accolto positivamente e comunque importante per dare una spinta
ulteriore in questa direzione, ma a Melbourne si è entrati decisamente in una nuova
dimensione. Magari, si è vista un po’ di residua resistenza da parte di qualche
giocatore che ha chiesto di rivedere una “close call”, una chiamata che dovrebbe
essere dubbia, seconda la vecchia accezione, ma che non lo è più nella realtà, in
generale però tutti si sono adeguati e anche queste richieste, man mano che
passavano i giorni, sono quasi scomparse: cosa si sarebbe dovuto verificare, infatti,
visto che la verifica non era altro che la stessa chiamata del sistema elettronico.
E’ anche vero che, oltre alla pandemia e alla necessità di avere meno gente
possibile, il motivo preponderante di questo cambiamento è quello economico. In
un torneo dello Slam, considerando una quindicina di campi e con schieramento al
completo che prevede nove giudici di linea per ogni incontro, per due turni di
lavoro, si arriva facilmente a qualcosa come trecento e oltre persone impegnate,
con tutto ciò che comporta come alloggio, vitto, rimborsi e pagamenti vari. Col
sistema elettronico, c’è una spesa pur notevole per gli impianti, ma poi c’è solo
bisogno di controllo e manutenzione, alla lunga il costo è incredibilmente inferiore a
quello che ci sarebbe con i giudici di linea.
E il tema dei costi eccessivi non è nemmeno così nuovo, proprio a proposito dei
giudici di linea. Una volta, a fondo campo, c’erano sempre 3 giudici, due sulle linee
laterali, uno su quella centrale. Quest’ultimo “lavorava” soltanto sul servizio, poi era
del tutto ininfluente. Così, qualcuno si inventò la barzelletta dei soli due giudici di
linea a fondo campo: uno sulla linea, l’altro cominciava al centro e poi, subito dopo il
servizio, si spostava rapidamente sull’altra linea esterna e si andava avanti così in
alternanza fra i due giudici. Ricordo che cominciai a vedere questo obbrobrio alla
fine degli anni Settanta negli Open degli Stati Uniti. E non bisogna nemmeno
considerarla una sorpresa, visto che il sistema capitalistico americano è quello che
teorizza lo sfruttamento esasperato di chi deve svolgere un compito, che sia di
lavoro o di qualsiasi altro impegno. In pratica, non si può “sopportare” un giudice di
linea che “sta rubando lo stipendio”! Così, poco alla volta, si è cominciato a usare
questo metodo in quasi tutti i tornei che non fossero dello Slam, per poi ricorrervi
anche in quelli dello Slam a eccezione degli ultimi turni. Ovviamente, tutto questo
porta a scompensi notevoli, visto che il giudice che si trova al centro deve
letteralmente correre sulla linea laterale non appena è stato effettuato il servizio.
Conseguenze principali: il giudice, sotto la spinta mentale a muoversi prima possibile
per andare sulla linea laterale, può non avere la massima attenzione sul servizio e
inconsciamente può anche essere portato a muoversi leggermente prima per il
timore di non arrivare in tempo sulla linea laterale, quindi a non vedere bene la palla
sul servizio; se il giocatore al servizio fa “serve and volley” proprio sul lato
“momentaneamente vuoto”, è difficile che il giudice arrivi in tempo per controllare
la palla sulla linea. Inoltre, se il giudice non ha un fisico d’atleta, e se ne vedono
molti obesi, come può garantire di arrivare in tempo nella posizione laterale? E non
può essere obbligatorio avere un fisico “scattante” per fare il giudice di linea.
Intanto perché si vede chiaramente che almeno la metà dei giudici sono sovrappeso,
e anche di parecchio.
Ma poi, argomento secondo me più importante, il giudice deve giudicare la palla
dentro o fuori, le qualità che gli servono per farlo non sono necessariamente legate
al fisico. Insomma, se abbiamo un giudice grasso ma con una vista perfetta e una
capacità di “fermo immagine” superiore alla media, dobbiamo escluderlo o metterlo
in condizione di non essere nella posizione migliore e più comoda per giudicare dove
va la palla? Tutto questo è ridicolo, soprattutto, lo ripeto, perché comunque i giudici
sovrappeso non sono stati eliminati e continuano a stare sui campi. E, in definitiva,
perché non c’è alcuna garanzia che il giudice giovane, atletico, scattante, velocista,
sia poi bravo a giudicare la palla dentro o fuori. E gli esempi non mancano, molto più
gravi negli anni prima dell’occhio di falco. Vorrei ricordare il furto che subì Bjorn
Borg nella finale degli Open Usa del 1980, quando era in corsa per il Grande Slam
dopo aver vinto Parigi e Wimbledon (la famosa finale del drammatico tie-break con
John McEnroe. Nel quinto set, sul 3-3, un giudice giovane, snello e attento non vide
una palla di McEnroe fuori di almeno 30 centimetri, tant’è che la si poteva notare
chiaramente in Tv. Le proteste di Borg (che non protestava mai) furono inutili, lui si
innervosì (a riprova della grande tensione, lui che era di ghiaccio) e crollò, perse la
finale e la possibilità di tentare il Grande Slam andando a vincere gli Open
d’Australia, che in quegli anni si disputavano a novembre, dopo Parigi, Wimbledon e
Flushing Meadows.
Ci sono poi le aberrazioni, sia pure ininfluenti o quasi sul gioco, che si sono
cristallizzate negli anni. La prima è il passaggio dalla posizione sulla sedia a quella in
piedi. I giudici di linea a fondo campo una volta erano seduti. La svolta si ebbe nel
1983, il 10 settembre, durante la finale junior degli Open Usa fra Edberg e Youl. Un
giudice di linea statunitense, Richard Wertheim, 61 anni, sulla linea centrale, fu
colpito all’inguine da una palla di servizio di Edberg. Wertheim si sbilanciò sulla
sedia, cadde e sbatté la testa, il colpo gli causò una emorragia cerebrale e Wertheim
morì 5 giorni dopo. Si pensò che la posizione in piedi avrebbe consentito un più
facile movimento per scansare la palla che stava per finire addosso al giudice, così
furono abolite le sedie. E’ anche vero, comunque, che proprio negli Open Usa già i
giudici erano in piedi in molti incontri (il ricordato episodio di Borg nel 1980), con lo
scopo non di garantire la sicurezza, ma di diminuirne il numero per risparmiare
economicamente.
In ogni caso, c’è stata questa evoluzione, che ha portato un altro cambiamento, più
che altro “di immagine”. Se facciamo caso al comportamento dei giudici di linea
almeno negli ultimi trent’anni, ma in maniera sempre più esasperata col passare del
tempo, notiamo che non segnalano più la palla fuori, con la voce e il movimento del
braccio che si allarga. Segnalano anche la palla dentro con il gesto delle due mani
unite e i palmi rivolti in basso, e non lo fanno soltanto quando il punto è finito, lo
fanno “a ogni palla” che cada a breve distanza dalla linea laterale, mentre il gioco
continua, e addirittura lo fanno anche quando la palla cade ben dentro il campo, e
parlo di 2-3 metri, il che è qualcosa di totalmente non necessario. La sensazione
sempre più smaccata è che i moderni giudici di linea vogliano essere “protagonisti” e
si sbracciano a ogni punto, con atteggiamenti che a volte sfiorano il ridicolo, tipo
“guardate come sono bravo”. A cosa serve mai quel gesto? Se la palla è fuori la si
chiama fuori e si allarga il braccio. Se non si chiama la palla e non si fa alcun segno
significa che è dentro. Ma chi l’ha mai inventata questa moda? Al massimo, tanti
anni fa (in una galassia lontana lontana), il gesto delle mani col palmo rivolto verso il
basso, anzi, una sola mano col palmo verso il basso, veniva fatto quando l’arbitro di
sedia, o anche il giocatore, chiedevano al giudice di linea se fosse sicuro della
chiamata “dentro” e lui faceva quel gesto per dare la conferma. Ma tutto il resto è
un teatrino inventato da giudici di linea che, evidentemente, hanno cominciato a
credere di essere loro i protagonisti, non i giocatori. Anche per questi motivi, oltre
all’esigenza di chiamate il più possibile sicure, non c’è alcun rimpianto nel non
vederli più. E anche se ci si appella all’esistenza dell’occhio di falco per dire che non
c’è bisogno del sistema elettronico totale, è lecito ricordare che ci sono 3 chiamate a
set per il challenge e che se si perdono non c’è più la possibilità di una chiamata del
giocatore anche se la palla è clamorosamente fuori e l’arbitro di sedia e il giudice di
linea non se ne accorgono. E in quanto al margine di errore, che pure esiste in
minima parte anche col sistema elettronico, bisogna ricordare che comunque
esisterebbe anche con l’occhio di falco e che comunque questo margine, poco alla
volta, si sta riducendo sempre più, finché arriverà quasi allo zero. Il giudizio umano
non potrà mai arrivare a quella precisione. Quindi, per favore, non scherziamo, i
giudici di linea appartengono ormai alla preistoria.