E della sedicesima tappa del Giro d’Italia numero 100, della partenza da Rovetta nella Val Seriana e dell’arrivo a Bormio nella Valtellina, dei 222 chilometri di corsa alpini e minerali, selvaggi e antichi, solari e spettacolari, del Mortirolo scalato una volta ma dalla parte meno nobile, quella di Monno, e dello Stelvio scalato due volte, quella di Bormio e quella svizzera, ma non dalla parte più nobile, quella di Trafoi, della cima Scarponi conquistata da Samuel Sanchez e dalla cima Coppi guadagnata da Mikel Landa, degli attacchi da lontano e degli allunghi da vicino, degli scatti in salita e degli scarti in discesa, delle strategie offensive e delle tattiche difensive, dei giochi di squadra e delle alleanze delle squadre, della volata a gimkana nel cuore di Bormio fra negozi di bresaole e ristoranti di pizzoccheri, dell’ingresso nell’ultima curva a sinistra, di quel metro in cui Vincenzo Nibali ha stretto la curva sullo stesso Landa vincendo poi allo sprint, dei due pugni che Landa ha picchiato sul manubrio per non farlo su se stesso anche se lo avrebbe fatto stravolentieri, della politica del “fair play” e delle sue regole variabili e volubili, misteriose e interpretabili, personalizzate e spersonalizzanti, della bellissima frase che Landa ha regalato in tv “il ciclismo è fatto così: alcune volte si vince, altre si impara”, insomma, di tutto questo patrimonio di vita e di ciclismo che cosa mai resterà?
Resterà un retroscena. Tom Dumoulin – l’olandese primo in classifica – che si ferma lungo la strada, getta via la bicicletta, si sfila febbrilmente la maglia rosa, poi si tira giù i pantaloncini e si libera, si scioglie, si alleggerisce, si toglie un peso, un fardello, una zavorra, un problema, un’urgenza.
Non è la prima volta, non sarà l’ultima. Gli storici del ciclismo ricordano quella volta in cui Francesco Moser la fece nell’unico contenitore a sua disposizione, il cappellino, ma l’acrobatica toilette non risparmiò chi gli stava, stavolta malauguratamente, nella scia, il fiammingo Patrick Sercu. E pensare che i due avevano corso insieme la Sei Giorni di Milano senza mai incorrere in simili incidenti igienici e coincidenze intestinali. Gli archeologi del ciclismo rammentano addirittura quella volta in cui la stessa operazione fu eseguita da Fausto Coppi, ma senza il gadget del cappellino, con l’inevitabile risultato che la sua eredità fu sparsa, distribuita, disseminata, centrifugata dalla ruota posteriore seminando il panico nel plotone, e non solo quello.
La storia insegna che si è perduto il Giro d’Italia anche per molto meno: una pipì. Quella di Charly Gaul, che nella tappa del Bondone al Giro del 1957 si fermò per espletare i propri bisogni dopo che lo avevano fatto i suoi avversari, però mostrando – come spiegò Louison Bobet – “l’organo della sua virilità”, forse in modo sprezzante, provocatorio. E gli altri, coalizzati, lo punirono.
Si dice che Dumoulin abbia sbagliato alimentazione, troppi zuccheri, o preso un colpo di freddo, passando dai 30 gradi della pianura ai soli 5 dei 2758 metri di altitudine dello Stelvio senza coprirsi e proteggersi adeguatamente. Si dice anche che ci sia stata una seconda volta, ma che l’olandese abbia scelto una soluzione volante e itinerante. Il ciclismo non è la Formula 1: niente box. E non è il calcio: niente spogliatoi. Il ciclismo è lo sport della strada, ed è andata bene che qui ci fossero prati e non marciapiedi. Ed è andata benissimo che, nonostante tutto, poi in tv sia stato fatto il processo alla tappa, e non al tappo.
Oggi è un altro giorno e si vedrà se la maglia rosa risponderà meglio agli attacchi di Nairo Quintana che a quelli di pancia.
Marco Pastonesi