Un anno senza Diego Maradona, già un anno di rimpianti, di malinconia, di tristezza. E come sarà tutta una vita senza di lui? Basteranno la gioia che ha regalato e il ricordo delle emozioni che ha suscitato per sopportare la sua assenza?
Nel momento della commemorazione è inevitabile mettere in primo piano, ancora una volta, le sue prodezze, i gol incredibili, le imprese impossibili, ma un qualcosa di più ci può essere, magari nascosto fra i ricordi e i grandi discorsi che saranno gli stessi di un anno fa e dell’anno prossimo e per sempre finché, fra cento anni, non rimarranno nemmeno più i testimoni di questa epopea leggendaria. Proviamo a scoprirli, chissà che qualche nuova luce riesca a illuminare la figura di chi, in fin dei conti, è stato semplicemente un uomo che amava il calcio e, con quella palla, amava far divertire la gente, soprattutto la meno fortunata, quella che aveva avuto poco dalla vita, niente di più, niente di meno.
L’anima napoletana e quella argentina sono un tutt’uno che fa appartenere Maradona solo a questi due popoli. Tutti gli altri che lo hanno esaltato per le sue prodezze possono essere suoi sinceri ammiratori, ma l’amore è un’altra cosa e appartiene solo alle sue due Patrie. E in questa speciale appartenenza Maradona non è solo perché gli è accanto, nel cuore dei napoletani, un altro argentino, anche lui numero 10, anche lui genio del calcio, estro e fantasia portati a livelli celestiali, Omar Sivori. Il filo che li unisce, impercettibile per i più giovani ma consistente come una fune d’acciaio per chi li ha visti entrambi, può rivelare aspetti ancora più interessanti di questi due campioni che idealmente sono nati a Napoli e hanno vissuto come napoletani.
IL 10 E’ SOLO AZZURRO
Considerare Sivori napoletano, visto che la gran parte della sua carriera italiana l’ha vissuta con la maglia della Juventus e con i bianconeri ha conquistato i successi più importanti, può apparire come una bestemmia. In effetti, con la Juve, in 8 stagioni, Sivori ha vinto 3 scudetti, 3 Coppe Italia, una Coppa delle Alpi, capocannoniere nel 1959-60 con 28 gol, Pallone d’oro nel 1961, 259 presenze e 174 gol fra campionato, Coppe nazionali e Coppe Europee. Col Napoli, in 3 stagioni, una Coppa delle Alpi, un secondo e un terzo posto in campionato, 76 gare e 16 gol fra Italia ed Europa. Non c’è paragone, ma i numeri non hanno anima e in questa storia che accomuna Maradona e Sivori è l’anima a contare di più, anzi, è l’unica cosa che conta. Per avere un’idea della forza di Sivori basta ricordare una partita in cui la Juve fu sconfitta dall’Inter e il cui servizio filmato fu trasmesso nei Cinegiornali, sorta di Telegiornali molto popolari in quegli anni (i Cinquanta e Sessanta) che si proiettavano nei cinema alla fine del film. In quel servizio si diceva che Sivori non aveva brillato, tanto che, testuale, “sono bastati quattro (!) giocatori dell’Inter per fermarlo”. E sullo schermo si vedeva Sivori, col pallone fra i piedi, circondato da quattro interisti, e non riusciva a superarli. Era questa la statura di Sivori: giocando normalmente, quattro interisti li superava ubriacandoli di dribbling.
Quando Sivori passa al Napoli, buttato via come uno straccio vecchio dalla Juve, dopo che il nuovo allenatore, Heriberto Herrera, non lo considera più utile alla squadra, la città esplode. Sivori arriva a Napoli in treno, alla stazione di Mergellina. Non è una giornata normale. Diecimila napoletani sono lì ad aspettarlo, tutta la stazione e la zona intorno sono bloccate, il traffico si ferma. Non è una manifestazione organizzata, come lo sarà il benvenuto a Maradona nello stadio San Paolo pieno con 70.000 tifosi, è assolutamente spontanea. Sivori è costretto a scappare dalla folla grazie all’intervento della Polizia. In quegli anni, le copertine di alcuni settimanali, come La Domenica del Corriere, non hanno foto, ma disegni bellissimi di autori che restano famosi, come Achille Beltrame, specializzato in quelli di guerra, e poi Walter Molino. Una copertina è dedicata proprio all’arrivo di Sivori a Napoli e, con ironia, lui viene disegnato in fuga sul tetto del treno. Un autentico delirio.
SOTTO LA TRAVERSA
Non è solo l’immagine di scugnizzo che fa capire come Sivori sia arrivato nella sua sede naturale, proprio come Maradona tanti anni dopo. E’ anche una profonda questione di spirito, di assoluta identità con l’anima napoletana. Un episodio dimenticato può dare l’idea delle affinità elettive fra Sivori e Napoli. Nella prima stagione con la maglia azzurra, l’incontro al San Paolo contro la Juventus avviene alla terza giornata di ritorno, il 6 febbraio 1966. All’andata, a Torino, è finita 0-0. Ma è a Napoli che Sivori deve realizzare la sua vendetta. Prima di ogni partita, lui ha un rituale scaramantico: prende il pallone e, da fuori area, lo manda in porta mirando proprio sotto la traversa, se entra sfiorandola sarà una buona giornata per lui, se va fuori o entra senza sfiorare la traversa sarà una cattiva partita. Fra la bolgia dei tifosi che pregustano la vittoria sulla Juve, Sivori ripete il rituale, la palla sembra andare dentro, ma finisce di poco alta. In un attimo lo stadio ammutolisce, è il silenzio assoluto, impressionante. No, non contro la Juve. Sivori resta fermo per un momento, poi, mentre continua il grande silenzio, esce dal campo e va a prendere quel pallone che non è entrato in porta. Lo deve prendere lui, nessun altro lo può toccare. Torna in campo e si prepara a qualcosa che non aveva mai fatto prima, ripetere il tiro. Tutta la partita è in quel tiro, i tifosi lo sentono, sanno che quella scaramanzia non è solo di Sivori, è la loro, è della città, e quello scugnizzo con la testa piena di capelli, tanto da farlo soprannominare “El Cabezon”, è il loro padre, il loro avo, il loro fratello, il loro figlio. E il silenzio si fa ancora più pesante. Sivori è lì, pronto, pochi passi e il tocco di sinistro, il pallone che si alza, in un tempo che pare infinito, e poi all’improvviso si abbassa giusto in tempo per passare sotto la traversa. Dal San Paolo viene fuori un boato spaventoso, ora tutti sanno che il Napoli questa sfida con la Juventus la vincerà. E la vince, 1-0, con un gol di Altafini, preludio allo scambio di vendette con Sivori, che segnerà il gol di un altro 1-0, contro il Milan, 21 giorni dopo, ancora al San Paolo.
Ma i legami fra epoche e campioni scugnizzi, come Maradona e Sivori, rivivono in altre sfide e altre prodezze. Sì, perché c’è un altro pallone che entra in porta sfiorando la traversa, 19 anni dopo, sempre al San Paolo, il 3 novembre 1985. Anche stavolta, c’è la Juve da battere, c’è un segnale da dare alla squadra che ha più scudetti, questo Napoli è pronto a vincerlo. Ed è di nuovo 1-0, ma questa partita e questo gol meritano un posto speciale nella storia del calcio. Sul gol più bello di sempre ci possono essere opinioni disparate, la maggioranza dei pareri è per il secondo di Maradona contro l’Inghilterra al Mondiale 1986, ma l’unanimità in questi casi è praticamente impossibile, ci sarà sempre qualcuno che ne sceglierà un altro. Ma sul gol “tecnicamente più difficile” della storia del calcio, beh, non ci possono essere dubbi su quello di Maradona alla Juve su punizione. Il campo è pesantissimo per la pioggia, che continua a cadere anche durante la partita. C’è una punizione a due nell’area della Juve. Il pallone è all’altezza di un metro dietro il dischetto del rigore, quindi sui 12 metri al massimo dalla linea di porta, sulla destra dell’area. In questo filmato (https://www.youtube.com/watch?v=KZnjHKuO_7A) si può notare che la barriera della Juve è composta da sei uomini che stanno, anziché ai regolamentari 9,15 metri, a non più di 6 metri. E appena l’arbitro fischia due di loro si staccano dalla barriera, prima ancora che Maradona calci il pallone che gli è stato dato da Pecci, e gli si avvicinano a non più di due metri. Quindi, con un campo diventato una gigantesca pozzanghera, con due avversari a un paio di metri e altri quattro a sei metri, Maradona deve far alzare il pallone così tanto da scavalcare quella barriera, ma con una traiettoria che gli permetta di abbassarsi il più rapidamente possibile per entrare in porta, lì dove c’è un portiere di grande qualità come Tacconi. Non è un tiro difficile, è un tiro oltre i limiti della scienza. E’ un abisso senza fine quello in cui Maradona dovrà andare a recuperare quel pallone sporco di fango, immerso in un acquitrino e pesante come il piombo per farlo tornare su. E mandarlo sul palo più vicino, lì dove il portiere avversario può arrivarci prima. E’ una discesa all’inferno quella che dovrà fare Maradona per tornare immediatamente in paradiso, diventare un “angelo dalla faccia sporca”, proprio come tanti anni prima era stato soprannominato Sivori al suo arrivo in Italia dall’Argentina. Non sono coincidenze, è un solo destino per due campioni che avrebbero conquistato il cuore dei napoletani. E Maradona lo fa, in quell’abisso buio e senza fondo ripesca il pallone, con uno sforzo titanico lo manda in alto ma la spinta che gli dà è calcolata come un algoritmo incantato per interrompersi esattamente nel punto in cui dovrà abbassarsi per passare sotto la traversa, pochi centimetri lontano dalle mani del portiere che vanamente si distende. E’ il capolavoro del calcio, alla pari della Cappella Sistina di Michelangelo, della Gioconda di Leonardo, della Notte stellata di Van Gogh.
UNA SOLA ANIMA
Di pari passo, le strade di Maradona e Sivori si incrociano definitivamente nell’anno dello scudetto del Napoli. E anche in questo caso, c’è la Juventus a fare da sfondo. Quando comincia il campionato 1986-987, si capisce subito che è l’anno del Napoli. Sarà proprio lo scontro a Torino a togliere qualsiasi dubbio, ma prima di ricordarlo è meglio vedere qual è il ruolo di Sivori in quel momento. Ha 51 anni e collabora con la Domenica sportiva, rivelandosi arguto e fantasioso proprio come era in campo. Il 7 dicembre 1986 viene trasmessa una intervista che Sivori fa a Gianni Agnelli (https://www.youtube.com/watch?v=91eLznp6-DY). Per capire bene il senso del rapporto fra Agnelli e Sivori bisogna ricordare che fu proprio il presidente della Juve il primo tifoso dell’argentino, simbolo dei bianconeri per tanto tempo. Eppure, in questa intervista, il tono di Agnelli è diverso, non parla a Sivori come a uno juventino, ma lo consacra come napoletano. Ecco la trascrizione di questa parte dell’intervista, in maiuscolo le parole che sanciscono il riconoscimento che Agnelli fa all’anima napoletana di Sivori, preponderante rispetto ai suoi anni bianconeri.
Agnelli: “L’ho detto in agosto, forse prima di tutti, la mia sensazione è che questo campionato lo vincerà il Napoli, non solo perché è in vantaggio, ma perché è una squadra forte, perché ha un giocatore eccezionale. Lo potrebbe fermare solo Goicochea, ma per fortuna non c’è nel campionato italiano. Lo potrebbero fermare forse preoccupazioni psicologiche, ma VOI lì avete Allodi che a Napoli ormai credo che potrebbe riuscire a stabilire anche il controllo delle nascite, quindi a creare una certa serenità. Poi AVETE, ho visto domenica un San Paolo, l’ho visto in televisione, un San Paolo straordinario. Poi ho visto che AVETE un modo di fermare la gente come avete fermato Pacione, che se continua VI dà una certa serenità”.
Sivori: “Allora lei crede che l’avversaria per questa Juventus è senza dubbio il Napoli”.
Agnelli: “Ma non direi che è l’avversaria per la Juventus, direi che è l’avversaria per tutti. La Juventus è fra le tante inseguitrici. E poi direi che c’è anche un altro fatto: il VOSTRO presidente, Ferlaino, fra i presidenti del centrosud, potrà fare meglio del senatore Viola, perché Viola ha vinto il 50 per cento dei campionati della Roma, lui vincerà il 100 per cento dei campionati del Napoli”.
In quel “Voi”, e poi “Avete” e “Vostro presidente, Ferlaino”, c’è l’ufficializzazione: Sivori appartiene a Napoli e al Napoli, non alla Juventus. Quando questa intervista va in onda è passato appena un mese dal giorno in cui il calcio italiano, ma anche tutta l’Italia non calcistica, ha capito che il Napoli avrebbe vinto lo scudetto e che nessuna forza al mondo avrebbe potuto impedirglielo: 9 novembre 1986, Juventus-Napoli 1-3.
IL GIORNO MAGICO
Quella domenica 9 novembre è la svolta storica per il Napoli e tutta Napoli. E’ una gigantesca sineddoche, un giorno, anzi, solo 90 minuti, che racchiudono in sé tutto il campionato, tutta la storia del Napoli, tutte le delusioni di lunghissimi anni da perdenti, tutte le occasioni sprecate, tutte le speranze nascoste. Lo scudetto sarà assegnato al Napoli il 10 maggio 1987, ma il giorno in cui viene cucito sulle maglie e piantato nei cuori dei napoletani è quel 9 novembre. Bisogna vincere per dimostrare di poter aspirare allo scudetto, di essere una squadra senza paura che va a imporsi sul campo dei più forti fino a quel momento. I ricordi dei tentativi falliti, anche per sfortuna e senza demerito, sono pesanti, come la sconfitta, sempre a Torino con la Juve, dieci anni prima, che è passata alla storia come la partita del “core ‘ngrato” Altafini. Stavolta è diverso, stavolta non basta nemmeno il pareggio, si deve vincere e basta. Ma anche stavolta sembra che tutto debba andare male. Il Napoli gioca meglio della Juve, ma non si vede quella superiorità che servirebbe per aspirare a essere il favorito per lo scudetto. E a inizio ripresa, peggio ancora, la Juve passa inaspettatamente, grazie a un errore in difesa, con Laudrup al 5’.
Sembra una maledizione, il Napoli non ce la farà mai. Ma da questo momento è come se suonassero le trombe dell’Apocalisse, perché Maradona trascina la squadra, la fa rialzare e la porta a schiacciare gli avversari. Il Napoli domina, ma non riesce ancora a segnare, Tacconi para l’impossibile. E poi, ecco gli ultimi 20 minuti. La Juventus è rintanata non nella sua metà campo, ma addirittura nella sua area di rigore, il Napoli è una furia. Poche volte, nella storia del calcio, si è vista una simile tempesta distruttrice concentrata in uno spezzone di partita, se non nei ricordi del Grande Torino di Valentino Mazzola, dell’Ungheria di Puskas, del primo Brasile di Pelè e Garrincha. E la Juve crolla. Ferrario segna il pareggio. Poi, dopo due minuti, dalle radioline collegate con “Tutto il calcio minuto per minuto”, con il collegamento in atto con un altro campo di serie A, arriva un boato, è il segnale di un intervento da altro campo, per un gol, e quando il clamore è troppo grande vuol dire che è la squadra di casa ad aver segnato. Poi si sente la voce di Enrico Ameri, da Torino, e per i napoletani che non sono allo stadio, ma sparsi nel mondo, è come un annuncio di disfatta, l’illusione almeno di non perdere è durata poco più di un minuto e basta. Ma le parole portano qualcosa di diverso: “Attenzione. Incredibile a Torino. Il vantaggio del Napoli”. Ha segnato Giordano il 2-1. Il boato è quello di ventimila tifosi napoletani che hanno invaso lo stadio Comunale. Arriva anche il 3-1, con Volpecina all’ultimo minuto, ma ormai è già tutto deciso: non lo si dirà per scaramanzia, ma in questo momento tutti sanno che il Napoli ha vinto il primo scudetto della storia.
IL GENIO
Tre gol ma nemmeno uno di Maradona, il paradosso apparente di questa partita. Ma è proprio la dimostrazione di forza dell’intera squadra a garantire che il Napoli è più forte di tutti. E anche quando non segna Maradona lascia un’impronta fondamentale, per il lavoro fatto e per essere stato la colonna portante in questa vittoria, ma anche per una dimostrazione inusuale di genio, che nell’euforia generale è sfuggita. Sul primo gol del Napoli, con Ferrario che manda la palla verso l’angolo alla sinistra di Tacconi, c’è Maradona sulla traiettoria ed è probabilmente in fuorigioco, non si riesce a stabilirlo dalle immagini perché potrebbe esserci Bonini, fuori campo, più indietro rispetto alla porta. La palla va verso Maradona che potrebbe colpirla e mandarla in porta con maggiore sicurezza, ma si vede chiaramente che si scansa, fa un saltello all’indietro e la lascia passare., Qualunque giocatore, in momenti come questi, interviene d’istinto e calcia verso la porta, Maradona no. Si tratta di frazioni di secondo, ma lui ha riflessi tanto portentosi, sia fisici che mentali, da capire che un suo tocco potrebbe far annullare il gol, e quindi si toglie di mezzo, fra l’altro senza impedire a Tacconi la vista del pallone, fattore anche questo che potrebbe portare all’annullamento. E’ una ulteriore dimostrazione del suo genio, che poi gli viene riconosciuto che faccia gol o no. E in questo giorno, a Torino, il tributo dei tifosi è un coro particolare che scatta negli ultimi minuti, così potente da poter essere avvertito in Tv quando la sera, sulla Rai, viene trasmesso il secondo tempo della partita. La musica è quella del ritornello di “Stars and stripes forever” (https://www.youtube.com/watch?v=a-7XWhyvIpE), il testo dei napoletani è semplice: “Maradò, Maradò, Maradò”. E’ l’apoteosi per lui e per il Napoli.
IL LUNGO ADDIO
Dai trionfi ai momenti tristi, poi, quello di Maradona è stato un lungo addio a Napoli, e ancor più alla vita, tra falsi amici che hanno approfittato di lui e codardi che hanno trovato l’occasione per maramaldeggiare sulle sue debolezze. Di certo c’è che ha pagato di persona, senza elemosinare pietà e perdono, e che quando ha dovuto prendersi responsabilità, il più delle volte per difendere i compagni, non si è mai tirato indietro. Una testimonianza di rilievo, per capire la correttezza di Maradona in campo, è quella dell’arbitro Rosario Lo Bello, che dice: “In campo era talento allo stato puro, fantasia a pioggia, generosità verso i compagni e, non ultimo, rispetto per gli arbitri. Lui non protestava, chiedeva spiegazioni. Voleva capire perché una determinata azione di gioco era stata valutata in un modo piuttosto che in un altro. E lo faceva, anche nella foga agonistica del momento, in modo composto. Rispettava i ruoli. Braccia sempre dietro la schiena, giusta distanza. Sapeva stare al suo posto anche in quei momenti in campo. E se non era d’accordo scuoteva la testa e finiva lì”. Riportare le testimonianze di chi ha giocato con lui sarebbe troppo lungo, vale solo la pena far notare che non se ne trova neanche uno che ne parli male, soprattutto perché era il primo a proteggere i compagni. O la propria patria, assumendosi anche il rischio di venire attaccato. Il caso più clamoroso è quello della finale del Mondiale 1990 in Italia. Al momento degli Inni nazionali, quello argentino viene vergognosamente fischiato dai tifosi italiani, all’Olimpico a Roma. Maradona vede sullo schermo dello stadio che la sua squadra viene inquadrata e quando la telecamera arriva a lui comincia a dire “Hijos de puta” scandendo le parole e assicurandosi che tutti lo capiscano. Un modo sicuramente rozzo per protestare, ma l’unico che ha in quel momento per difendere il suo Inno, la sua patria. E lui, pur sapendo che poi sarà criticato e attaccato, lo fa comunque, perché qualcuno deve pur difendere l’Argentina e lui sa che nessun altro lo può fare.
In quella volontà di difendere ciò che si ama c’è tutto Maradona, nel bene e nel male, con le sue cadute e con la sua generosità, con la gioia da bambino nelle vittorie, con la tristezza e la disillusione nelle sconfitte, quando si è sentito tradito e abbandonato. Ognuno lo ricorderà come vuole, oggi che è trascorso un anno dalla sua morte, domani fra un altro anno o fra cento anni. E ogni ricordo avrà un senso diverso, un sapore particolare, un gol, una prodezza, un gesto d’amore come tanti che lui ha fatto per aiutare gente povera e sfortunata, senza andare poi in giro a vantarsi, un rimpianto, un dolore, una musica malinconica che, chissà, possa far rivivere la sua vera indole di scugnizzo argentino e napoletano allo stesso tempo, e illudere che tornerà a farci emozionare. Questa degli Inti Illimani, dal titolo “La partida”, che significa “La partenza”, ma per una magica assonanza ci induce a credere di stare ancora parlando di calcio, ha le note dolenti dei popoli andini e sudamericani, forse quelle che più si avvicinano alla sua anima: https://www.youtube.com/watch?v=6TvCfFvPdWs
La partenza è giunta inaspettata e tragica un anno fa. Maradona è partito, per non tornare mai più, ma ci sarà sempre qualcuno che lo aspetterà.
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