Per comprendere la ragione di vita di alcuni uomini a volte è necessario partire dalle loro sconfitte più cocenti, più brucianti. Quelle che provocano dolore fisico e psichico, dalle quali non sai, sulle prime, se sarai mai in grado di riprenderti. Solo con la sofferenza e la tenacia si spiega il lungo viaggio che porterà Primo Carnera dal piccolo paese di Sequals, Friuli, alla conquista del titolo mondiale dei massimi di pugilato.
Ed eccolo, allora, Carnera ondeggiare come un grattacielo giapponese durante una scossa di terremoto. I colpi lo tempestano sui fianchi, le gambe arretrano ineluttabilmente. Il serbatoio non ha più benzina. Il ring non dà requie al golem italiano che trova le corde a sospingerlo nuovamente verso la furia dello sfidante. Le gambe di Carnera cedono una, due volte: non reggono più la stazza della “montagna che cammina”.
Quella sera infausta Primo conoscerà il gelido abbraccio del tappeto decine di volte, il numero esatto degli atterramenti rimane ancora oggi un mistero irrisolto della boxe. Max Baer, suo amico fraterno, infierisce con colpi di micidiale potenza sulla mole di Carnera. Solo all’undicesimo round l’arbitro decide di sospendere il match per K.O. tecnico. Carnera, nonostante tutto, è ancora in piedi. Roba da stropicciarsi gli occhi. È il 14 giugno del 1934, al Madison Square Garden, New York City, Primo Carnera perde la cintura di campione del mondo dei pesi massimi conquistata dodici mesi prima. Come si saprà solo dopo il match, il pugile italiano aveva subito la frattura della caviglia all’inizio dell’incontro dopo un primo atterramento, episodio decisivo che condizionerà l’intera sfida con Baer.
Facciamo, però, un passo indietro. Primo vede la luce il 26 ottobre 1906 e sin dai primi minuti si capisce che non sarebbe stato un bambino come tutti gli altri: alla nascita pesa non meno di 8 kg. Pare soffrisse di acromegalia, una malattia subdola, lenta e progressiva, che porta il soggetto ad avere dita delle mani e dei piedi più grosse, allargamento del setto nasale e degli zigomi, fronte sporgente, mandibola larga e denti prominenti.
A soli 16 anni Primo Carnera lascia la scuola elementare. Il padre è al fronte e la madre non riesce a mantenere la famiglia col suo lavoro, tanto che i fratelli Carnera girano spesso per strada a mendicare. Grazie alla sua stazza fisica trova lavoro come falegname; ad appena 18 anni Primo Carnera è alto 2.05 metri, pesa più di 125 kg e ha un 52 come numero di piede. Le dure condizioni di vita in Friuli lo spingono ad emigrare in Francia pochi mesi dopo la maggiore età. Trova lavoro come garzone in una carpenteria presso la comunità italiana di Le Mans.
Carnera non è certo uno che passa inosservato e, infatti, nel giugno 1920 viene notato da Adolphe Ledudal, giostraio, che lo propone per la sua compagnia ambulante di spettacolo in cambio di vitto ed alloggio. Primo accetta la proposta soprattutto per la consistenza della paga. Inizia così a girovagare per la Francia interpretando il gigante “Jean Le Terrible”, un autentico fenomeno da baraccone. Un mestiere ingrato, permeato da crudeltà e tanta solitudine.
Il suo talento e stazza vengono notati dall’ex pugile Paul Journée che sarà il suo primo mentore sportivo. Paul capisce immediatamente che i movimenti di Carnera sono lenti, il gioco di gambe assente, ma è colpito dalla sua implacabile forza fisica e, soprattutto, dalla sua tenacia tanto fuori dal comune quanto la sua ingenuità e mitezza. Caratteristiche che lo rendono una sorta di ossimoro vivente. A Primo viene dunque proposta una carriera nel mondo della boxe che il giovane Carnera inizialmente rifiuta. A furia di insistere, però, Carnera si convince. Journée lo presenta a Léon See, promotore parigino, e la carriera di Primo Carnera ha il suo battesimo.

Al suo arrivo sulle scene è naturalmente accolto da uno scetticismo diffuso perché nessuno pensa che un gigante di quelle dimensioni possa sostenere un combattimento con i grandi pugili del tempo. Carnera non fa, però, fatica a trovare organizzatori disposti ad inserire suoi incontri nel loro cartellone. Vuoi perché Léon See è un ottimo manager, disonesto sia chiaro, vuoi perché la sua mole suscita una curiosità nel pubblico che fa bene agli incassi. Un’immagine, quella da fenomeno da baraccone, dalla quale Primo non riuscirà mai ad allontanarsi.
Il 12 settembre 1928 Carnera combatte nel suo primo match da professionista contro Leon Sebilo a Parigi, vincendo per KO al secondo round. Vincerà i suoi primi sei match, per poi perdere contro Franz Diener per squalifica al primo round a Leipzig. L’Europa impara così a conoscere Primo Carnera ed il suo devastante gioco di pugni. Le sirene statunitensi iniziano a cantare.
Carnera sbarca all’ombra della statua della Libertà e oltre a iniziare a fare colazione come si deve (si dice che ogni mattina trangugi un quarto di succo di frutta, due quarti di latte, diciannove toast, quattordici uova, una pagnotta di pane e mezzo chilo di prosciutto Virginia) ecco allungarsi sulla sua enorme figura i tentacoli della mafia italo-americana. Sulle vittorie dei suoi primi ventitré match aleggiano da sempre i sospetti di combine e di interessi criminali. Seppur indubbiamente dotato di stoffa e vincendo meritatamente la maggior parte dei match, alcuni dei suoi sfidanti finiscono al tappeto con sospettabile velocità. Carnera è una gallinella dalle uova d’oro da spremere come un succoso agrume: ventiquattro combattimenti sostenuti in un solo anno. Ventitré vittorie, di cui diciannove per K.O. ed una sola sconfitta.
Nel 1930, i guantoni di Carnera incrociano quelli di Jim Maloney. Due pugili agli antipodi. Il primo è sgraziato e devastante nei pugni, Maloney è, invece, tattico e preciso. Prevale il secondo: per Carnera una sconfitta umiliante. Il primo scontro frontale con l’illusione di essere un grande combattente dopo tante vittorie inanellate. Carnera sceglie di tornare in Europa per prendere lezioni di boxe e supplire alle sue lacune, ma ben presto si trova a dover ritornare negli Stati Uniti a causa della mancanza di avversari e allenatori preparati. Carnera si sente pronto a partecipare alla lotta al titolo mondiale, saldamente nei guantoni del pugile tedesco Max Schmeling. Ma contrapporre Carnera a Schmeling è considerato inopportuno e i motivi sono squisitamente politici: i due provengono da nazioni amiche come l’Italia e la Germania dalla seconda metà degli anni Trenta. Tutto rimandato.
Il 10 febbraio 1933, presso il Madison Square Garden di New York, Carnera conosce la tragedia: Primo mette KO lo statunitense Ernie Schaaf con una tale grinta da mandarlo irrimediabilmente in coma. Schaaf – già piuttosto malconcio dalle percosse ricevute nel suo precedente match contro Max Baer – muore tre giorni dopo. “La montagna che cammina” cade in un grave stato depressivo e annuncia l’abbandono della boxe. Quattro mesi di stop, poi la madre di Schaaf lo scagiona dalla morte del figlio, definendola una sventurata fatalità. Ancora fortemente provato, il pugile italiano torna così all’attività agonistica. “Montagna assassina!” titolano i giornali americani. “Una montagna” che sta scalando le gerarchie della boxe e che vuole piantare la bandierina sulla cima più alta: quella presidiata da Jack Sharkey.
29 giugno 1933, Long Island. Dopo cinque riprese, Primo Carnera abbatte Sharkey nel sesto round per KO con un gancio destro al mento tremendo ed è proclamato campione del mondo di boxe. La sua prima dichiarazione ad un giornalista del Corriere della Sera è: “Offro questa vittoria al mondo sportivo italiano, giubilante e orgoglioso di aver mantenuto la promessa fatta al duce”. Lo attendono mesi di gloria nazionale, con tanto di esaltazione della forza fisica di Carnera quale esempio trionfante del fascismo di Benito Mussolini.
Il neo campione del mondo promette di organizzare la prima difesa del titolo in Italia e di combattere gratis per sostenere la causa fascista. La sede prescelta è Piazza di Siena, Roma, l’avversario l’iberico Paulino Uzcudun. I due si erano già incrociati, nel 1930, in una Spagna già in odore di guerra civile: aveva vinto, non senza polemiche, lo spagnolo davanti a novantamila spettatori. Carnera, infatti, aveva ricevuto dei guantoni con poca imbottitura ed era stato costretto a combattere di fatto a mani nude. Questa volta, invece, le cose vanno diversamente: settantamila persone vedono Carnera vincere ai punti e dominare l’avversario in ogni ripresa.
“Esisterà al mondo un pugile capace di impensierire Carnera?”
si chiede Nino Cappelletti, inviato della Gazzetta dello Sport.
“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie“ – diceva un tale. E nemmeno Carnera riesce a sfuggire al crepuscolo di una carriera.
Il capolinea dell’epopea per il pugile friulano si chiama, e qui ritorniamo al nostro incipit, Max Baer. Il 14 giugno 1934, Carnera cede il titolo di campione all’amico Max Baer, convinto antifascista, che per l’occasione si era fatto cucire sui pantaloncini una stella di David. L’incontro si conclude con entrambi i pugili sfiniti all’undicesimo round.

Carnera si dichiara pronto a combattere subito un altro incontro che faccia da turno eliminatorio prima del successivo match con in palio la corona. L’avversario viene scelto dal suo entourage in una rosa di pochi nomi; tra questi ce n’è uno che una giovane promessa, un afroamericano molto amato dal suo popolo, ha poco più di vent’anni. Avversario abbordabile, incasso sicuro. Questo giovane sconosciuto si chiama Joe Louis.
L’incontro, organizzato a New York, si risolverà in un massacro per il povero Italiano, che dovrà rassegnarsi per un po’ ad incontri di minor prestigio. Il Minculpop ordina alla stampa italiana di non pubblicare le foto di Carnera al tappeto al cospetto di un “negro” e di dare il minor risalto possibile al fatto. Carnera si ammala di diabete e deve essere operato ad un rene: sul finire del 1938 appende definitivamente i guantoni al chiodo e si ritrova abbandonato da tutti e povero in canna. La vita riprende in seguito a sorridergli: si sposa con una ragazza Jugoslava, Pina Kovacic, che lo aiuta a far fruttare la sua popolarità nonostante tutto ancora intatta. Ufficialmente fuori dal mondo della boxe, Primo Carnera inizia a praticare il wrestling americano, lotta libera e si dà al cinema con brevi ruoli da forzuto nei film di Hollywood, una ventina in totale. La cirrosi epatica, la peggiore eredità lasciatagli dalla terra natia, inizia però ad esigere il suo tributo.
E quando comprende di aver perduto il match della vita contro il cupo mietitore, Primo il 22 maggio del 1967 dall’America fa ritorno a Sequals, nel suo Friuli. Quando il gong della fine suona, il “gigante buono” aveva appena compiuto 61 anni: muore il 29 giugno 1967.
“La montagna” è stata erosa dal tempo. Carnera come riscatto per chi era emigrato oltreoceano. Carnera come eroe venuto dal nulla e che se ne va in silenzio, in punta di piedi.
“Se un pugile ha due mani, vedi, e un cuore che batte, ce la fa senz’altro.” – “Rocky V”