Il sogno di ogni atleta è entrare in forma perché poi, una volta salito a quel livello fisico, un giorno, all’improvviso, sa che, d’incanto, sarà tanto coinvolto e gratificato da estraniarsi col corpo e con la mente. Allora, ritroverà quella sensazione unica: entrerà in una bolla, perdendo il senso del tempo, e quindi scalerà marcia e vedrà la palla enorme, anticiperà ostacoli ed avversari, prevedrà situazioni e traiettorie, si sentirà il dio di quegli attimi sublimi. Sarà entrato nella “zona”, la trance agonistica. Che è il magic moment sognato da qualsiasi sportivo. Quello che Novak Djokovic ha ritrovato domenica nella finale degli Australian Open quando ha massacrato Rafa Nadal, quello che anche un super-atleta abbraccia tre-dieci volte massimo, nella carriera.
Già, ma come si entra in questa situazione irreale senza “aiutini” come faceva Bradley Cooper in Limitless? Questo fenomeno straordinario, la Teoria del Flusso, è stato trattato già nel 1975 dallo psicologo croato di ceppo ungherese e formazione negli Stati Uniti, Mihaly Csikszentmihalyi. Che ne ha fatto poi un libro “Flow in Sports” insieme alla psicologa sportiva Susan Jackson.
Come si entra nella tranche positiva
Secondo il suo postulato, questa condizione è caratterizzata da un totale coinvolgimento dell’individuo con focalizzazione sull’obiettivo, motivazione intrinseca, positività e gratificazione nello svolgimento di un particolare. Si acquisisce una concentrazione totale in un limitato campo di attenzione (la persona non ragiona su passato e futuro ma solo sul presente), la perdita di consapevolezza porta il soggetto ad essere talmente assorto nell’attività da non preoccuparsi del suo ego, con una retroazione diretta ed irrevocabile: l’effetto dell’azione deve essere percepibile dal soggetto immediatamente ed in modo chiaro.
C’è un bilanciamento fra sfida e capacità: l’attività non è né troppo facile né troppo difficile per il soggetto. Il senso di controllo è massima: si ha la percezione di poter dominare totalmente la situazione. Ricavandone estremo un piacere intrinseco, fine a se stesso e solo ed esclusivamente per se stessi. E l’integrazione fra azione e consapevolezza, cioé fra concentrazione e impegno sono massimi: la persona è talmente assororbita nell’azione da farla apparire naturale.
Sam Vine, ricercatore della Exter University in Inghilterra, ha studiato già dal 2010 l’efficacia dell’allenamento specifico del controllo visivo attenzionale, il “quiet eye”, l’occhio calmo, per poter escludere, sotto la pressione della gara, qualsiasi disturbo esterno ed ottenere concentrazione assoluta sui movimenti, propri e dell’avversario. Convinto che la chiave della famosa “zone” nasca da lì. Ha quindi armato di eye-tracker mobile una parte di 16 dimostratori facendogli tirare 520 tiri liberi di basket in 8 giorni: 40 pre-test, 360 di allenamento e altri 120 in condizioni di ansia. E quelli armati di QE hanno mantenuto un controllo visivo attenzionale più efficace e hanno ottenuto risultati molto migliori sotto pressione rispetto agli altri.
Le teoria di Vine
Negli anni, Vine ha approfondito la sua teoria all’inseguimento dei segreti della prestazione, e quindi dell’abilità motoria che può essere enormemente variegata come infilare la palla in un cesto, a basket, guidare una Formula 1 e rimuovere un tumore al cervello. In primavera, ha quindi dimostrato un chiaro legame tra la capacità di una persona di immagazzinare informazioni nella memoria a breve termine – una buona misura della capacità di concentrazione – e la capacità di usare l’approccio silenzioso.
I test dimostrano che la tecnica dell’”occhio calmo” stimola l’area dorsale del cervello, che regola l’attenzione focalizzata e diretta verso l’obiettivo. E Mark Wilson, professore di psicologia alla Exeter che collabora allo studio, sottolinea che l’allenamento nella tecnica tende a modificare una serie di misure fisiologiche, tra cui la frequenza cardiaca e i modelli di movimento dei muscoli.
“Tieni gli occhi sulla palla” è una vecchia indicazione, ma solo di recente gli scienziati hanno acquisito la tecnologia per cogliere appieno il valore di un’intensa attenzione visiva. E il blocco delle variabili visive non è così semplice. “Spesso le persone sono convinte di guardare dalla, parte giusta e invece si sbagliano”, sottolinea Vine. “La differenza nel tempo di messa a fuoco tra un principiante e un esperto è minima, può arrivare appena a un quinto di secondo”.
Ma è ugualmente decisiva nella prestazione e non insegnabile. Tanto che, da un altro test, con 30 bambini con difficoltà fisiche chiamati a riprendere una palla dopo averla lanciata contro un muro, quelli dotati di “occhio calmo” hanno avuto notevoli successo rispetto agli altri che si perdevano un po’, probabilmente perché stavano prestando più attenzione alla forma e meno alla palla stessa.
Un occhio calmo aiuta con un altro problema di abilità motorie, il calo delle prestazioni a mano a mano che la posta in gioco aumenta. Gli scienziati di questa teoria sostengono che la pressione innesca l’ansia, che degrada l’attenzione e crea come risultato che il soggetto non guarda nel posto giusto al momento giusto.
*articolo ripreso da agi.it