Dica 33. Trentatré tornei pro diversi e altrettanti vincitori in questo tennis sempre più globale e difficile. La numero 33 fa ancor più scalpore: è aborigena, figlia di quella etnia oppressa, condannata e sofferta dall’Australia. Ashley Barty, Ash per tutti, piccola, paffutella, allegra ragazza dal braccio d’oro che firma il torneo di Miami stroncando col fioretto la picchiatrice Karolina Pliskova, ha fatto quindi due volte più fatica per emergere. E aggiungere un’altra pietra miliare alla storia nella storia dopo la pioniera Evonne Goolagong, ex numero 1 del mondo anni 70 con 7 Slam di singolare, 6 di doppio e uno di misto. Che è la sua mentore, l’idolo, la stella cometa. Come atleta e come aborigena: “La mia eredità è molto importante per me. Ho sempre avuto la carnagione olivastra e il naso schiacciato, e penso che sia importante fare il meglio che posso per essere un buon modello per tutti, in particolare per i giovani e ancor di più per i tanti ragazzi aborigeni che hanno enormi potenziali atletiche”.
Non sono tanti gli aborigeni, parliamo di 650,000 persone, quanto gli abitanti di Macao, dispersi ai margini delle città, senza infrastrutture, coi più giovani che inseguono al massimo un pallone.
Ash, 23 anni il 24 aprile, alta appena 1.66 in un tennis sempre più dominato da virago, ha dalla sua il talento naturale, sia fisico che tecnico, il famoso rapporto ideale occhio-palla, ma in meno ha talmente tanti fattori che tutti le vogliono bene e le riconoscono i miracolosi risultati. Papà Robert – l’unico ex atleta di famiglia, da ex golfista – le ha trasmesso qualche problemino psichico: “Sono ossessivo compulsivo. Sono maniaco depresso. Sono bipolare. Sono in terapia e sarò in cura per tutta la vita, ma vivo una vita meravigliosa”.
Per allontanare “la nuvola pesante” che aleggia sulla sua testa, Ash l’introiversa ha lavorato tanto con una zia, medico, ha fatto tanta meditazione, si è guardata tanto dentro: “Ricordo che la maggior parte delle sedute finiva in lacrime, e poi uscivo sentendomi un milione di volte meglio”.
Ha assunto farmaci per la depressione per quasi due anni, ha imparato a sopportare il grande successo, per lei così piccola e inesperta, sin dal titolo juniores a Wimbledon ad appena 15 anni. Brava, molto brava, non riusciva però ad esprimersi compiutamente in singolare, legandosi al gioco di squadra, al doppio con l’adorata Casey Dellacqua con la quale, nel 2013, ha raggiunto la finale di Australian Open e Wimbledon. Ma, frustrata dai tanti sforzi che non portavano a risultati commisurati, delusa dalla classifica di singolare che la relegava fra le top 200 (n. 184). Ha lasciato il tennis per rifugiarsi nel cricket, la sua prima grande passione sportiva.
Ma, dopo 18 mesi di oblìo, pur distinguendosi nei Brisbane Heat della Bash League e sfiorando la convocazione in nazionale, è tornata al tennis. Con le sue manie: non usa mai un asciugamano nel primo gioco, non beve un sorso d’acqua al primo cambio-campo, usa sempre un’altra racchetta con le palle nuove, la sua borsa da tennis è sempre imballata e disfatta nello stesso ordine, e nessuno può metterci dentro il naso. Ma, stavolta, ha cominciato a correre anche da pro, a modo suo.
Non ha chiesto la classifica protetta che spetta a chi rientra da infortunio. “Avevo solo in testa il mio processo mentale, ero uscita dal tennis perché dovevo, perché mi sentivo finita ma non avevo buttato via, perché sentivo che il tennis avrebbe sempre fatto parte della mia vita, ma dovevo separarmene totalmente per riprendere ad amarlo”. Tornando, a maggio del 2016, senza classifica, nel 50 mila dollari di Eastbourne, Aegon, ha scelto di ripartire dal basso, giocando anche undici partite in nove giorni, ma convincendosi sempre di più, dentro di sé, che davvero voleva vivere quella avventura: “Sentivo che lottavo per ogni punto della classifica, senza aiutarmi con le wild-card, perché credo che la classifica rifletta quello che vali veramente. E così, guadagnandomi i miei progressi, ho creduto sempre più in me stessa”.
Così, nel 2017 ha aggiunto la finale del Roland Garros al suo curriculum di gran doppista e l’anno scorso ha interrotto il tabù conquistando il primo Slam, agli Us Open, e firmando i primi due titoli di singolare. A gennaio, poi, si è aggiudicata il primo titolo importante, a Sydney, dominando la numero 1, Halep, e a Melbourne, è diventata la prima australiana ad arrivare nei quarti da Jelena Dokic nello Slam di casa, sostenendo sulle spalle tutte le aspettative possibili moltiplicate al quadrato per la sua storia, il tormentato addio, il rientro e l’essere aborigena.
“Ho cominciato a capire meglio le cose fuori dal campo, come posso godermi di più tutto, come posso convivere con la sconfitta dopo essermi data totalmente come faccio io in allenamento come in partita”. La ripartenza per lei è: “Tennis 2.0”. Con tre titoli, la scalata al numero 15 del mondo: “Sono una persona migliore, posso solo ringraziare questo break che mi sono presa. E’ stato vitale. Sapevo che quella era la strada per essere felice, e comunque mi ero tenuta la porta aperta”.
Come premio ecco il successo di Miami, battendo Pliskova e coronando il sogno delle top “ten”, da numero 9 del mondo. Coi complimenti di tutti, a cominciare da Rod Laver, il mito del tennis mondiale e ancor più australiano. Con quel servizio magico, mille soluzioni di dritto, mille cambi di ritmo e la capacità di far gioco che possono solo far innamorare di un tennis diverso, classico, e insieme moderno. Alla ricerca del tempo perduto, quello di 60 mila anni fa, in un’isola che si sarebbe chiamata Australia.