Fine luglio 1996, Marco Lodadio ha solo 4 anni e mezzo. I suoi genitori Antonella e Massimo, che gestiscono una palestra di ginnastica, sono davanti alla tv per ammirare Yuri Chechi che vince l’oro olimpico agli anelli, ad Atlanta. E’ ormai notte, probabilmente il piccolo Marco dorme, ma qualcosa gli viene trasmesso inevitabilmente, una sorta di “imprinting” che segnerà la sua storia sportiva. E adesso che anche lui ha cominciato a conquistare medaglie universali, come il bronzo ai Mondiali di Doha, proprio agli anelli, quella notte di 22 anni fa gli appare magica. “Davvero non riesco a ricordare se ero rimasto sveglio o no per guardare Yuri Chechi – dice Lodadio -. Tutto mi sembra un sogno, perché ho rivisto quell’esercizio di Chechi così tante volte, centinaia, che lo ricordo a memoria istante per istante e non so quando è stata la prima volta che l’ho guardato. La prima sensazione che mi è rimasta dentro è l’urlo del telecronista, “Vola, vola, Yuri, vola”, un’emozione incredibile”.
Già, è la Rai a trasmettere in diretta e le parole che Lodadio ricorda sono una filastrocca che non si dimentica, con quel “vola” ripetuto cinque volte, prima sussurrato, poi gridato: “Vola, vola, vola, vola, vola verso il podio, vola verso il podio Yuri Chechi, vola. Un esercizio perfetto, un esercizio da oro”. Che quelle parole le abbia ascoltate in diretta o gli siano arrivate direttamente in sogno, Marco Lodadio sa che gli sono entrate nel sangue. Passerà qualche altro anno prima che cominci a praticare la ginnastica, quasi una strada predestinata per lui, con i genitori al lavoro nella palestra è solo questione di tempo: l’inizio a 8 anni, poi il passaggio al tecnico Luigi Rocchini, che resterà sempre la sua guida, gli allenamenti all’Acqua Acetosa.
E proprio qui Marco, subito dopo l’Olimpiade di Atene, incontra per la prima volta Yuri Chechi, reduce dalla sua ultima impresa, il bronzo agli anelli dopo essere tornato alle gare quando tutti credevano che la sua carriera fosse finita. “Avevo 12 anni – racconta Marco -, tutti noi, bambini della palestra, lo guardavamo come un idolo, perché lui lo era davvero, il nostro idolo. Lui venne a visitare la palestra e a guardare un po’ il nostro lavoro e noi lì, emozionati, senza spiccicare una parola. Quell’incontro me lo ricordai quando, ormai grande, ebbi occasione di parlare con lui. Non ero più il fan che incontra il suo idolo, ma l’atleta che può confrontarsi con il grande campione, che gli chiede consigli e lui è lieto di darglieli”.
E’ proprio il rapporto con i grandi del passato, diretto o solo di ispirazione, a costituire la forza più potente per i giovani. Marco Lodadio, insieme alla soddisfazione per il bronzo mondiale, mostra sentimenti che possono rivelarsi persino più importanti della gioia per un successo o delle lodi che gli arrivano da tecnici e tifosi. Lodadio rivela umiltà e orgoglio allo stesso tempo: “Una parte fondamentale della mia crescita è costituita dagli esempi che ho avuto davanti, guardavo Yuri Chechi, Matteo Morandi, Andrea Coppolino, li vedevo eseguire esercizi bellissimi e vincere medaglie mondiali e olimpiche, erano il mio riferimento. Ho “rubato” da loro con gli occhi, ho imparato grazie ai consigli che mi hanno dato, ho cercato di prendere da loro tutto ciò che era possibile. E adesso sono orgoglioso di contribuire a portare avanti la grande tradizione italiana creata da questi campioni”.
E la tradizione italiana nella ginnastica e in particolare agli anelli è davvero grande, con medaglie olimpiche e mondiali sin dagli albori, come gli ori di Giorgio Romano ai Mondiali 1909, di Giorgio Zampori e Guido Boni (ex aequo con due francesi) nel 1913, i 5 di Yuri Chechi dal 1993 al 1997, oltre all’argento di Pietro Bianchi nel 1911 e i bronzi di Giorgio Zampori, Angelo Mazzancini, Franco Menichelli, Andrea Coppolino e Matteo Morandi, oltre allo stesso Chechi dal 1909 a oggi, fino a Lodadio; e gli ori olimpici di Francesco Martino nel 1924 e Yuri Chechi nel 1996, l’argento di Franco Menichelli nel 1964 (con scandaloso oro regalato dalle giurie “casalinghe” al giapponese Hayata), i bronzi di Giovanni Lattuada nel 1932, di Chechi nel 2004 e di Matteo Morandi nel 2012. E’ qualcosa più di una tradizione, è un filo rosso che permea tutta la storia degli Anelli. E bisogna esserne degni per farne parte. Marco Lodadio si prende la medaglia mondiale non per caso, non con un esercizio “solitario” o grazie a prove negative degli avversari. Lui dimostra di meritare questa “eredità morale” facendo qualcosa di speciale.
Il suo esercizio, infatti, è tecnicamente il più impegnativo, con un livello di difficoltà di 6.300, il massimo raggiunto in questi Mondiali a Doha e, in generale, il massimo negli esercizi agli Anelli in questo momento: solo il greco Petrounias, campione olimpico e mondiale, oro anche a Doha, e l’ucraino Igor Radivilov, hanno 6.300 di difficoltà tecnica. Lo stesso Zanetti, brasiliano, argento a Doha, ha 6.200, inferiore quindi a Lodadio, che riesce a superare grazie all’esecuzione, 8.900 contro 8.600 dell’azzurro, ma con un aiuto consistente dei giudici. Lodadio, quindi, è già al massimo del livello tecnico, gli rimane da affinare l’esecuzione.
Rispetto a Petrounias, per quanto si è visto a Doha, ci sono ancora piccolissime oscillazioni quando bisogna “tenere” qualche posizione più impegnativa, ma si tratta davvero di imperfezioni. Lodadio ci sta lavorando: “Tecnicamente, per il momento, non si può fare di più, siamo solo in tre ad avere questo livello di difficoltà. Per quanto riguarda l’esecuzione, negli ultimi tempi sono migliorato nella capacità di concentrazione nelle occasioni importanti, continuerò a impegnarmi sempre di più”. Nella finale agli Anelli, in effetti, il suo 8.600 è stato solo il sesto punteggio su otto atleti, ma questo è anche dovuto al fatto che i giudici “apprezzano” i “nomi” già conosciuti e penalizzano chi non ha ancora vinto medaglie. Può darsi che Lodadio, adesso che “si è fatto conoscere”, riceva voti più adeguati alla sua bravura. A Doha è arrivato a 14.900 in totale, aveva ottenuto 14.933 ai Giochi del Mediterraneo, dove i giudici sono un po’ più “larghi”, ma è evidente che il 15, e anche oltre, è ormai alla sua portata.
A lui non resta che mirare più in alto. Dopo il bronzo mondiale, emozionatissimo, ha detto: “Non ci sono parole per descrivere un momento del genere. Sono impreparato alle conseguenze di un risultato così grande”. Impreparato nelle parole, preparatissimo nei fatti. Nel 2019 i Mondiali a Stoccarda, nel 2020 l’Olimpiade di Tokyo. “Piano – dice Marco -, un passo alla volta”. Già, un passo alla volta si può arrivare in vetta.
Gennaro Bozza