Se volessimo fare i cosiddetti conti della serva, le quattro formazioni arabe che sono emanazione diretta del fondo sovrano Public Investment Fund (Pif) spenderanno oltre 600 milioni di euro a stagione per pagare gli stipendi dei vari CR7 (Al-Nassr), Benzema (Al-Ittihad), N’Golo Kanté (Al-Ittihad), Milinkovic-Savic (Al-Hilal) e Kalidou Koulibaly (Al-Hilal) nuovi sceicchi di questo pallone sempre più gonfiato ma che pare non esplodere, o implodere, mai. Una febbre araba in connubio con un progetto lungimirante di futuro, componente indispensabile per non ripetere l’errore della Chienese Super League di qualche tempo fa.
L’Arabia Saudita vuole mostrarsi al mondo, cessare di essere almeno di facciata uno scatolone di sabbia e oro nero oscurantista e oppressivo. Ecco, dunque, piani per rendere non solo Riyad, la capitale, ma anche Gedda e le città costiere mete di un turismo elitario, capace di minacciare lo strapotere degli ingombranti e odiati vicini qatarioti e degli Emirati, nella prospettiva di un calo dell’estrazione di petrolio causa transizione energetica. Se per la PFM nel lontano 1972 erano “Impressioni di Settembre”, la percezione agostana nei confronti del movimento calcistico saudita è quella di un movimento in crescita. Ci sono le basi perché il fenomeno non sia soltanto una bolla e dietro all’interesse del momento ci sia un solido avvenire. E la clausola anti Spl che De Laurentiis vorrebbe inserire nel contratto di Osimhen è lì a ricordarcelo.
Non è, però, tutta una questione di ingaggi. Certo, Ruben Neves, centrocampista portoghese con in dote cinque stagioni da titolare inamovibile in Premier League, è stato sufficientemente chiaro e la sua sincerità è stata apprezzata all’unanimità:
“Ho scelto l’Al-Hilal per dare alla mia famiglia la vita che ho sempre voluto offrirle”.
Armi e bagagli per 25 milioni di euro a stagione. Una scelta che a ventisei anni, età nella quale solitamente si raggiunge la piena maturità calcistica, può lasciare un po’ di amaro in bocca. Brozovic, Koulibaly e Mendy intascheranno 30 milioni all’anno. Cinque milioni in meno per Kanté, 20 milioni per tre anni all’ex “sergente” biancoceleste Sergej Milinkovic-Savic. Bocca tappata alla vista del conto in banca anche e soprattutto per il pallone d’oro Karim Benzema, un conquibus il suo da 200 milioni all’anno per tre stagioni a 35 anni compiuti. Eppure, il franco algerino aveva dimostrato nell’ultima stagione in maglia “blancos” di avere ancora più di qualche cartuccia da sparare: 19 reti in 24 incontri di Liga, 4 marcature in 10 partite di Champions. Una scelta quella dell’ex spalla di CR7 che potrebbe essere stata influenzata anche da motivi religiosi: Benzema è musulmano osservante, fattore che ha giocato un ruolo anche nella decisione del connazionale Kanté. I fuoriclasse, però, non bastano: occorrono menti che sappiano farli rendere al meglio. E allora ecco approdare sulle rive del Mar Rosso Jorge Jesus, tecnico lusitano ingaggiato dall’Al-Hilal, e la leggenda “reds” Steven Gerrard, chiamato sulla panchina dell’Al-Effitaq e subito protagonista di alcune gag presto virali sul web causate dalle barriere linguistiche di rose in grado di accogliere giocatori provenienti da ogni latitudine del pianeta.
Ma come si diceva poc’anzi, fosse solo una questione di ingaggi. Sul Boeing 747-400 dell’Al-Hilal, esclusiva riedizione dell’Air Force One degli inquilini dello Studio Ovale di Washington DC, il carneade Odion Ighalo, uno che qualche stagione fa calcava il prato del Manuzzi di Cesena, ha potuto accomodarsi nell’ordine su un trono d’oro, un paio di giacigli king size, una batteria di poltrone relax, svagarsi con tavoli da gioco e smaltire un’intensa giornata di lavoro all’area massaggi. I club mettono a disposizione dei loro tesserati anche campi da golf climatizzati, chef stellati, piscine olimpiche, boutique private, Spa con le rubinetterie d’oro e addirittura ingressi riservati alla servitù filippina nei supermercati. C’era una volta la movida milanese che ammagliò Crespo, Ronaldo e Adriano, le palme di Miami, che pure hanno attirato l’attenzione di Leo Messi, e i boulevard di Los Angeles lungo i quali si è tanto divertito Ibrahimovic prima del suo omerico ritorno in Italia. La verità è che “Oggi Riad è il posto migliore per giocare e godersela” – come non ha mancato di sottolineare con una punta di orgoglio un giornalista saudita al Corriere della Sera.
Sport + Turismo = Vision 2030
La domanda che sorge spontanea è una soltanto: perché sprigionare tutta questa potenza di fuoco solamente adesso? Perché fare compere di campioni nel vecchio continente, ma anche di giocatori funzionali o utili dalla panchina come l’ex spezzino Kevin Agudelo e il doriano Gabbiadini, solo ora? Per alcuni l’obiettivo è quello di surclassare il Qatar, l’altro Paese del Golfo a maggioranza sunnita, reduce dall’incredibile ritorno d’immagine avuto con l’ultimo Mondiale di calcio, la migliore vetrina per accreditare a livello globale una certa percezione di sé, una cartolina di un Paese che si occidentalizza e che si allinea soprattutto ai nostri innocenti e opulenti vizi e vizietti, andando così a grattarci la pancia.
Secondo altri analisti, l’ormai arcinoto primo ministro nonché erede al trono Mohammed bin Salman, 37 anni, ha una visione più ampia e ambiziosa rispetto al mostrare i muscoli solo in ambito regionale: non a caso il progetto da lui concepito è stato battezzato Vision 2030. Concepito nove anni fa per liberare l’economia saudita dal giogo della sudditanza nei confronti del petrolio, diversificando gli investimenti – l’Arabia Saudita dovrà diventare il luogo più attrattivo al mondo, la meta più ambita per i turisti: allo studio ci sono 1.700 km di costa da far impallidire le Maldive e una “città dello sport”, grande il doppio di Milano, a 40 km da Gedda, città già nota agli appassionati di calcio italiano in quanto sede della finale di Supercoppa italiana 2018 tra Juventus e Milan. Il calcio è uno dei tredici settori che il principe ha indicato per esporre il Paese sui palcoscenici internazionali in vista del 2034, anno nel quale l’Arabia Saudita dovrebbe ospitare il Mondiale e prendersi la sua piccola rivincita sull’odiato Qatar.
Salman ha creato il Pif (Public Investment Fund), un fondo sovrano di 2.000 miliardi di dollari per il lancio di progetti e di investimenti sul territorio in settori non petroliferi, turismo e intrattenimento su tutti. Sia chiaro, il greggio non è agli sgoccioli, anzi; l’intenzione è vendere più petrolio all’estero riducendone il consumo interno in favore delle rinnovabili. L’Arabia Saudita, dunque, come Paese sostenibile, che non lesina investimenti nel digitale, nel turismo, nell’automazione, nella sanità. Al calcio sono stati riservati 750 milioni di dollari, la cui prima tranche è stata utilizzata per l’acquisto dei cartellini e il pagamento degli ingaggi dei fuoriclasse, mentre il restante andrà spesa per le infrastrutture e gli stadi. Una mossa di marketing politico, sicuramente economico, forse azzardano alcuni sociale. Il calcio è storicamente la continuazione della politica con mezzi differenti e in Italia lo dovremmo sapere bene.
La Serie A araba, la Saudi Pro League, è di proprietà dello Stato. Tutte le squadre che la compongono sono emanazione del ministero dello Sport. I fondi sono erogati in funzione dei trofei in bacheca. Ecco spiegato perché sono specialmente Al-Nassr e Al-Hilal, le due anime di Riad, e Al-Ahli e Al-Ittihad di Gedda a contendersi i migliori giocatori. È l’esecutivo, attraverso il fondo sovrano Pif, a controllare il 75% del pacchetto azionario delle quattro maggiori club e ad acquistare i calciatori, poi suddivisi in funzione del blasone. È, però, in cantiere la privatizzazione progressiva del club, che avrà come effetto dirompente l’aumento esponenziale di transazioni sul mercato e la competitività delle squadre, che da quest’anno passano da 16 a 18. La SPL ha poi incaricato la Img di New York, prestigiosa società di marketing sportivo, di siglare accordi di trasmissione su scala globale delle partite. Dall’arrivo di Cristiano Ronaldo all’Al-Nassr sono stati completati numerosi accordi a breve termine, tra cui UK, Cina, Turchia e Brasile, che hanno permesso di trasmettere il campionato saudita in circa 45 paesi.
In Italia l’anno scorso Sportitalia ha raccontato le gesta di Ronaldo e compagni, per quest’anno i diritti non sono ancora stati assegnati. La Saudi Sports Company, sempre controllata dallo Stato, si è assicurata i diritti nazionali dal 2022 al 2025 e il valore dell’accordo è 10 volte la somma che la Lega genera dai diritti internazionali. Per questo, nel prossimo biennio, la Spl sposterà il suo focus sui ricavi nazionali quando si tratta di trasmettere le partite, per poi espandersi, al termine di questo periodo, nel resto del mondo. Attualmente il valore totale degli stipendi dei calciatori della Spl supera i 600 milioni di euro. Cifra ovviamente in continuo aumento e non molto distante dagli 830 milioni della Bundesliga, soprattutto se consideriamo che in Arabia i calciatori non pagano tasse. I residenti, infatti, che hanno vissuto nel paese per almeno 183 giorni sono esentati dal versamento di imposte.
Sportwashing
Bin Salman ha avviato, dunque, un’imponente opera di trucco e parrucco nei confronti dell’immagine del proprio Paese. Riad investe già somme mastodontiche di denaro nel motorsport e nel golf, nel calcio ha acquistato il Newcastle riportandolo in Champions League. Il “rinascimento arabo” si sta realizzando e si realizzerà attraverso lo “sportwashing”, una spugna formidabile in grado di ripulire anche le macchie più ostinate che in Arabia Saudita hanno i volti delle donne oppresse, quelli maciullati degli yemeniti colpiti da raid che vanno ormai insensatamente avanti dal 2015, quelli stanchi e sfigurati dalla miseria e dalla fatica dei migranti, ridotti a vivere in regimi di semischiavitù. Senza dimenticare la galera per qualsiasi voce dissidente nei confronti della corona o l’orribile omicidio Khashoggi.
Sfruttando l’irrinunciabile richiamo del calcio, le bellezze e la ricchezza di un Paese in cui il 70% dei suoi abitanti (40 milioni) ha meno di 35 anni ma il 60% è sovrappeso e molti sono affetti da malattie da benessere, diabete e infarto in cima alla cartella clinica, la monarchia saudita prova ad abbagliare i nostri occhi con un’infinità di specchietti per allodole, nascondendo l’altra faccia di Selene, ovvero i problemi nel campo delle libertà civili. Quando si dice guardare il dito e non la luna.