Se le factory giapponesi dominano la MotoGP per numero, c’è un unico pilota che proviene dalla terra del sol levante: Takaaki Nakagami. “Corro per il secondo anno nel team LCR Honda Idemitsu e la progressione è evidente, basta dare un’occhiata alla classifica del 2018” racconta “Taka”, classe 1992, approdato al Motomondiale nel 2007 (la wild card a Valencia vale nel curriculum vitae) dopo avere vinto il titolo nazionale 125 cc nel suo Paese da enfant prodige (a 15 anni, tuttora record di precocità).
Il campionato ha fatto il giro di boa. Qual è il tuo obiettivo per quest’anno?
“Mi piacerebbe finire tra i primi sette: con una moto del 2018, sarebbe un ottimo risultato. Al debutto in Qatar a marzo, l’idea era di arrivare nella top ten tutti i weekend. A parte due ritiri e il quattordicesimo posto in Germania, ci sono riuscito e mancano nove gare”.
Il tuo compagno di squadra è Cal Crutchlow, tra i piloti più esperti del paddock: che tipo è?
“Di sicuro è un personaggio. Meno bizzarro di quanto sembri, però: ama il rischio, ma non perde mai il controllo della situazione e dimostra totale rispetto degli avversari. A vederlo in tv, dà l’impressione di essere aggressivo in pista, invece le telemetrie dimostrano che è molto costante, preciso. E con me è gentile, disponibile: ci scambiamo i dati, quando gli chiedo informazioni, mi risponde volentieri”.
Se non fossi pilota, cosa saresti?
“Difficile pensare a un’altra opzione: sono cresciuto in sella e la moto è la mia vita. Da ragazzino giocavo a calcio, ma non avevo abbastanza talento per trasformare il pallone in professione”.
Per che squadra tifi?
“Il Barcellona: abito non lontano da 4 anni, ormai”.
C’è qualcosa che non ti piace del tuo lavoro?
“Gli allenamenti. Soprattutto in bici: non mi spiego come Cal riesca a divertirsi a pedalare per ore”.
Hai detto che sei cresciuto in sella: quando hai infilato il casco la prima volta?
“A 4 anni. I miei genitori seguivano il campionato 500 e mia mamma mi ha comprato una minibike. La più appassionata di motori era proprio lei: il suo idolo era Ayrton Senna, praticamente lo considerava un dio, e sognava per me un futuro nella Formula 1”.
Hai mai provato le quattro ruote?
“Sì, a 8 anni ho fatto un test ed è bastato per aiutarmi nella scelta. Di solito mette più paura la moto dell’auto o del kart, che sono più stabili e ti fanno sentire più al sicuro. Per me valeva il contrario: sulla moto il feeling era speciale, mi veniva tutto naturale . Ecco perché ho preferito le due ruote”.
Mamma come ha preso la tua decisione?
“Era dispiaciuta, però mi ha sempre supportato. Anche dal punto di vista pratico. Il mio team era ‘fatto in casa’: partivamo per i circuiti con papà che faceva il meccanico e mamma alla guida del furgone”.
Adesso che il figlio corre nella MotoGP, sarà orgogliosa.
“Sì, non si può lamentare, è una bella soddisfazione anche per lei e mi segue in alcune tappe”.
Giappone ed Europa sono molto diversi: è stato difficile ambientarti qui?
“Un po’, ma abitare in un posto così lontano, in tutti i sensi, dalla mia terra d’origine mi è servito tantissimo, mi ha dato una grossa mano a guardarmi dentro e migliorare”.
Cioè?
“Noi giapponesi siamo rigidi e precisi, fin troppo. In altre parole: puntiamo alla perfezione. Tra italiani e spagnoli, vivo in Catalogna, ho corso con Aprilia e ora il mio team principal è Lucio Cecchinello, ho imparato che la perfezione non esiste e mi sono reso conto che non ha senso inseguirla. Soprattutto nel mio sport: ‘In 45 minuti di gara con l’adrenalina a mille e il fisico sotto sforzo, com’è possibile non commettere nemmeno un errore?’ mi sono chiesto un giorno. Beh, dal momento in cui ho compreso che sbagliare è ammesso, la pressione che prima mi tormentava è sparita. O quasi!”.
Credito Foto*: Stefano Biondini