Udite udite, gli dei del calcio sono come noi. Loro che lavorando mezza giornata guadagnano in un anno quello che noi mettiamo insieme in una vita, o in cinque, se non in dieci. Poi arriva la pandemia e ci accorgiamo che anche loro sono impotenti di fronte al virus. A questo punto, sottolinea opportunamente Mario Sconcerti sul Corriere della Sera, ora che scopriamo che il virus è democratico, che può colpire noi come loro, ci sentiamo un po’ imbecilli. Più giovani, più ricchi, più belli, non conta nulla di fronte al rischio di morire. Di questo parliamo e ci viene in mente la livella di Totó. Per poi accorgerci che basta molto meno per sentirci come CR7 o i bianconeri compagni di squadra di Rugani. Lui è positivo al Coronavirus e gli altri si sfogano: “Era una follia giocare Juve-Inter“. Gli stessi che dopo i gol di Ramsey e Dybala si abbracciavano nell’esultanza e festeggiavano compatti con selfie nello spogliatoio. Coglioni? Non più di noi. Che a calcetto facciamo lo stesso. Gli otto volte campioni d’Italia non hanno esultato abbracciandosi perché se ne fregano del virus, l’hanno fatto perché erano felici dopo i gol. Dopo la vittoria. Come lo saremmo stati noi alla sfida di calcio a 5 con amici o colleghi di lavoro.
Anche Cristiano Ronaldo è uno di noi, ce l’aveva fatto capire in una vecchia intervista dei tempi del Mondiale di Sudafrica 2010. Quando già navigava nei miliardi, per dirla con dubbio gusto ma estrema chiarezza. Per spiegare che ci sono periodi in cui ce la mette tutta ma il gol non arriva e poi, senza fare nulla di diverso dal solito, ne segna tre in una partita e due in quella dopo, usó l’esempio del ketchup. Anche col vasetto di ketchup è così, non vuole saperne di uscire e poi quando succede non si ferma più. CR7, come un ragazzotto qualsiasi, bramava per patatine e ketchup. Lui, che aveva Irina Shaikh a casa e restava al centro d’allenamento per provare le punizioni, come raccontò Ancelotti ai tempi del Real. Lui, che per saltare di testa come in NBA cena con una bistecchina di manzo scondita.
E a proposito di NBA, che dire di LeBron James, che all’idea iniziale di giocare a porte chiuse fa a pezzi il professionismo (e il contratto faraonico che ha firmato) perché “senza il pubblico io non gioco“?
Gli dei del calcio sono come noi, hanno le nostre stesse paure, gli stessi capricci. Esattamente come Zeus, padre degli Dei della Grecia antica, costretto un giorno sì e l’altro pure a placare le bizze di Afrodite, per poi non perdere occasione per tradire la moglie Era, illuminata madre di molti Dei, moglie rompiscatole e dalla vendetta facile e spietata con le amanti del marito. Divinità così di successo perché così umane. Del resto, non scopriamo oggi quanto il cieco Omero ci vedesse lungo.