Il problema dell’immagine di Raiola, pare con l’accento sulla prima “a” (questo non secondo Wikipedia), risiede nel tipico modo di procedere di questo simpatico paese che si chiama Italia. Tra gli altri problemi e difetti, questo è uno dei suoi più clamorosi: il passaggio da un estremo all’altro. Tanto per far capire come funzionava a quelli che nascevano nel 1978 o anche poco prima. Allora esisteva il “vincolo”. Un calciatore era vincolato alla società con cui firmava un contratto e questa ne poteva fare quello che voleva: tenerselo, non farlo giocare, cederlo, come, dove e quando voleva. I calciatori non avevano voce in capitolo. I procuratori non esistevano. Esistevano i telegrammi come quello che mandarono a Zoff. Passi lunghi e ben distesi.
Poi i principali calciatori italiani, Mazzola e Rivera su tutti, nemici in campo, amici nel sindacato che affidarono a uno di loro che aveva studiato giurisprudenza, Sergio Campana, fecero la rivoluzione, mandarono perfino i carabinieri al calciomercato e il vincolo venne abolito nel 1978. E all’alba degli anni Ottanta comparvero i procuratori. Prima operavano solo in campo nazionale, poi, dopo la “sentenza Bosman” del 15 dicembre 1995, anche in Europa. Vous connaissez Jean-Marc Bosman? Calciatore belga, centrocampista di qualità non eccelse, era in forza al Rrc Liegi, con contratto scaduto. Lo volevano i francesi del Dunkerque, ma il Liegi si oppose perché non c’era una contropartita economica soddisfacente. Bosman fece causa e arrivò all’Alta Corte europea, che stabilì quanto segue: in base al principio della libera circolazione dei lavoratori tra gli stati dell’Unione, Bosman era libero di trasferirsi gratuitamente alla scadenza del contratto. Bosman è un classico grande precursore. Lui ci ha guadagnato fama imperitura per il nome dato alla legge, ma neanche un franco (moneta d’allora), ovviamente. Quando finì l’iter giudiziario, era finita anche la sua carriera di calciatore.
Nella redazione di France Football
Tutti i procuratori hanno fatto la fortuna propria e dei loro assistiti grazie alla fine del vincolo e alla sentenza Bosman e, specialmente in Italia, ma non solo, grazie all’eccesso opposto: praticamente le società non decidono più nulla, quando un giocatore se ne vuole andare, alla fine se ne va. Ogni tanto succede che qualcuno s’impunti. Ricordate Witsel che era già a Torino nelle ultime ore di mercato dell’estate 2016 e Lucescu si rifiutò di farlo partire dallo Zenit alla volta della Juve? Però in generale, se un giocatore, anche sotto contratto, spinge per andare, al 90 per cento se ne va. E Mino Raiola è il re del trasferimento. A ogni trasferimento lui aumenta il capitale. Per questo i suoi giocatori si muovono spesso – su tutti Zlatan Ibrahimovic – per questo mi fanno ridere quelli che si strappano le vesti perché c’è Raiola di mezzo. Chi si accasa con lui sa che difficilmente finirà la sua carriera nella squadra in cui si trova al momento.
Il giovane Mino tenta con il calcio, all’inizio, poi fa il cameriere nei ristoranti del padre (come spesso succede scatta la leggenda che sia stato un pizzaiolo), poi a vent’anni fonda la sua prima società di intermediazione. Ora la sua Sportman ha sede a Montecarlo (e dove se no?) e ha uffici in Brasile, Olanda e Repubblica Ceca. Ecco, da là viene l’unico giocatore che gli disse di no, prima di Donnarumma, Pavel Nedved. Ricordo perfettamente un giorno del dicembre 2003 nella sede parigina di France Football (ora sono finiti un po’ più in là anche loro), quando al giocatore della Juventus diedero il Pallone d’oro. Nedved disse: «Ancora pochi anni e smetto». C’era un uomo che bofonchiava, a qualche metro: «Sì, parla pure, ma finché ci sono io tu giochi». Non lo conoscevo, mi dissero che era il suo agente, Mino Raiola. Nedved restò alla Juventus per altri sei anni e, a giugno 2009, fosse dipeso da Raiola, sarebbe andato all’Inter: si era già accordato con Mourinho, da sempre ammiratore del ceco. Ma lui rifiutò. Solo un ceco poteva preferire Torino a Milano, ma Pavel è rimasto fedele alla città, alla casata, all’ideologia. Chapeau.
E quindi di che parliamo? A proposito, sempre secondo Wikipedia, Raiola parla sette lingue: italiano, inglese, tedesco, spagnolo, francese, portoghese e olandese. Gli servono, se la sua linfa vitale sono i trasferimenti, compreso quello monstre di Paul Pogba dalla Juventus al Manchester United dell’estate 2016: lui ci ha guadagnato 25 milioni. Il Barcellona gliene ha pagati 1,2 all’anno per quell’unica stagione di Ibrahimovic alla corte di Messi e Guardiola, finita male perché, tra le altre cose, gli impedivano di andare ad allenarsi con la Ferrari.
Tasche piene e parole vuote
Il problema di Mino Raiola è solo che si presenta male. Tozzo, con la testa grossa e le camicie sformate. Poi la televisione ci mette del suo e lo inquadra sempre accaldato e stanco. Ma sa fare il suo mestiere e sulla vicenda Donnarumma si è comportato come si dovrebbe comportare il mio procuratore se ne avessi uno. Per quello di cui parlavamo prima, svincolo, sentenza Bosman, tra un anno il giovane portiere se ne sarebbe andato dal Milan a costo zero. Quindi i nuovi dirigenti rossoneri, come avrebbero fatto e come fanno tutti quelli interessati a tenersi un giocatore o comunque a non farselo portar via a costo zero, sono andati a chiedergli di firmare un rinnovo di contratto a più di un anno dalla scadenza. Hanno cercato di forzare. Ora questo nel calcio è usuale, c’è pure chi rinnova anche due anni prima della scadenza, ma allora non c’è nessuno scandalo neanche nel rifiuto, iniziale, di Raiola a far firmare il suo assistito in fretta e furia. E le trattative sono saltate. Poi, ogni tanto accade anche questo, e secondo Lucianone Moggi è la vera zavorra del calcio italiano: sono saltati fuori i genitori, il fratello da piazzare, la congiura degli affetti, i tifosi in lacrime, anche quelli delle altre squadre, perché quando c’è da piangere e da riempirsi la bocca con parole vuote – se applicate a uno sport professionistico – tipo “bandiera”, “tradimento” e “onore”, le rivalità si superano in un battere di ciglia. Nella vicenda Donnarumma tutti hanno indossato una parte in commedia, ognuno per portare avanti i propri interessi. Ma secondo il pensare comune c’è un unico cattivo, mister percentuale Raiola. Già, come se gli altri le percentuali non le prendessero. Campano con quelle, lavorano per quelle, sono quelle lo stipendio: la commissione, la percentuale, l’asterisco.
Mino Raiola, secondo me, non è neanche il più squalo tra i procuratori, specialmente tra quelli che si muovono a livello internazionale. Jorge Mendes, il potentissimo agente di Cristiano Ronaldo e di José Mourinho che di fatto controlla anche alcune società, come il Monaco, è più inquietante, anche se si presenta meglio, sempre elegante, sorriso Durbans. Da qualche mese Mendes è sotto inchiesta in diversi paesi, ora anche in Portogallo, per il “sistema” che la sua società, la Gestifute, avrebbe adoperato per occultare gli ingenti guadagni provenienti dai diritti d’immagine dei suoi assistiti. E il più celebre, CR7, è braccato dal fisco spagnolo che già acchiappò l’altro fenomeno della Liga, Leo Messi.
Il battito della calcolatrice
Insomma, questo è il calcio moderno in cui i procuratori fanno la differenza. Succede così da trent’anni, da quando è passata da professione pionieristica a punto d’arrivo di tanti ragazzetti che sognano di gestire il grande campione. Quando capita un caso come quello di Donnarumma, tutti tifano per la soluzione romantica, perché il giovane che ha avuto una sola maglia resti con quella. Quando capita un caso come questo, tutti danno addosso al procuratore, perché il cattivo migliore è quello con una calcolatrice al posto del cuore. Già, come se, invece, (quasi) tutti noi ai soldi non ci pensiamo, ci fanno schifo e siamo lì, alla finestra a gettarli di sotto. Quando capita un caso come questo si apre il dibattito, come al termine della proiezione aziendale della Corazzata Potëmkin e normalmente si invita un procuratore dalla “faccia pulita” a dire la sua, si parla di regole, di albi, di esami, si fa un po’ di fumo, si bolle la fuffa, poi si volta pagina e arrivederci alla prossima. Resta solo una tacca di malevolenza in più per il povero (vabbè, insomma) procuratore. C’è sempre bisogno di un cattivo, in una storia. Ma anche i cattivi hanno chi tifa per loro. Io, ad esempio.
Roberto Perrone
* Articolo pubblicato sul settimanale Tempi.