Il Rinascimento del tennis italiano porta, fortunatamente, popolarità acquisendo di giorno in giorno nuovi adepti più o meno disposti a capire il nuovo mondo nel quale si affacciano. Sì, perché c’è un’enorme differenza fra il calcio, di cui tutti sanno tutto per aver colpito un pallone in strada o in spiaggia, e uno sport come il tennis, che molti praticano in estate in spiaggia col racchettone.
Il mondo del web ha fatto suo il fenomeno del tennis italiano e, convinto di sapere già tutto quello che c’è da sapere, si schiera drasticamente, di partita in partita, alzando ed abbassando il pollice e decretando la vita o la morte dei protagonisti nell’arena, esattamente come faceva tanto tempo fa il Colosseo.
Non si deve disperdere tanta euforica ed appassionata partecipazione a favore di uno sport che, fino all’avvento di John McEnroe e Bjorn Borg, all’alba degli anni ’80, era considerato d’élite e non riusciva a coinvolgere le grandi masse. Ma bisogna educare l’appassionato perché capisca di più e diventi alleato dei protagonisti.
Il primo tema sul quale ragionare e dibattere, avvicinandosi al tennis, riguarda la peculiarità di una disciplina individuale rispetto a quella di squadra, con tutte le implicazioni psicologiche legate ai loro attori. L’ego di un tennista è massimo, e nello stesso tempo delicatissimo ed instabile, perché è legato all’allenamento e alle sensazioni, alla percentuale e alla casualità, a un net e a una riga, a un refolo di vento che cambia radicalmente, all’improvviso, una partita. Ogni tennista può aprire il suo libro dei ricordi su centinaia di casi diretti e indiretti che fanno propendere allo stesso modo per una verità e per il suo contrario, aumentando la imprevedibilità della propria esistenza. Che può essere esaltante e meravigliosa, quando si entra magicamente in forma e si vede la palla grande come un pallone, e deprimente e terrificante, quando si entra nel giro dantesco delle sconfitte e, peggio, degli infortuni.
Ricordatevi che il tennista non è stipendiato: anche nei campionati a squadre il suo salario dipende dalla vittoria. E il premio non è netto: oltre che dalle tasse locali dev’essere decurtare delle spese soprattutto di spostamento, perché oggi come oggi l’alloggio e almeno un pasto quotidiano sono sempre più spesso a carico degli organizzatori. Bisogna anche tagliare dal bottino guadagnato le spese di almeno un’altra persona al seguito, l’allenatore – se non più persone – più incordatura delle racchette, i campi d’allenamento, le cure dagli specialisti. Che variano sempre più dal preparatore atletico al fisioterapista, dall’osteopata al preparatore mentale.
Tutti pensieri che non dovrebbero ingolfare la mente di un atleta ma che finiscono spesso per farlo, soprattutto in età giovanile, il più delicato e ricco di dubbi, all’inizio della piramide da scalare e nelle fasce più basse. Perché tutti guardano alla super-star straniere, Federer, Nadal, Djokovic, e a quelle italiane, Berrettini, Sinner, Fognini, Sonego, Musetti, che dispongono di una struttura propria organizzata da un manager ma la maggioranza dei tennisti deve fare tutto da soli, con l’aiuto di parenti e/o di amici/mecenate. E, quando non è in gara, deve provvedere al proprio mantenimento.
“La vittoria è la straordinarietà, la cosa più comune è la sconfitta”, recita Rafa Nadal, l’agonista simbolo, sempre contento di esserci, ancor di più dopo le tante sconfitte e i tanti stop che ha subito. La sua lettura è perfetta, perché il tennista ha un personalissimo rapporto con la parola sconfitta: è allenato a subirne tante, di settimana in settimana, in uno sport che non conosce praticamente vacanze, ma ogni volta, pur avendo imparato ad accettare la sua condizione, vive la sconfitta come un dramma. La sconfitta è frustrazione, è non riuscire a mettere in pratica quello che sai, è scontrarsi con le caratteristiche e la testa di un avversario che, a pochi metri, di là del net, vive le identiche sensazioni e le medesime difficoltà, ma in tempi e con modalità differenti. Proprio come diversi sono gli esseri umani. Da cui l’immane sforzo psicologico che fa continuamente il tennista aumentando il coefficiente dello stress agonistico.
Come analizzare e quindi reagire alla sconfitta? In uno sport di squadra, l’errore e il miracolo del singolo, dall’autogol al gol, viene assorbito dal gruppo, così come vengono distribuite le responsabilità. Non totalmente, ma maggiormente. Nel tennis, vittoria e sconfitta appartengono invece, nel bene e nel male, solo dell’atleta che va in campo. Certo, per lui è utile rivedere le situazioni di gioco con un esperto di cui si fida. Che, dall’esterno, ha anche una visione asettica e privilegiata. Ma i lavorio che deve fare l’atleta all’interno di sè stesso è imponente ed impegnativo. Così com’è durissimo, il giorno dopo, addirittura subito dopo il match, come succede spesso, quando torna già in campo per allenare le proprie debolezze.
Ecco perché è sbagliato e ingiusto colpevolizzare e demonizzare un tennista dopo una sconfitta. E ancor più bocciarlo. Vale soprattutto per i più giovani, in via di apprendimento e di costruzione psico-fisica-tattica, alla ricerca di punti di riferimento e di conferme, e vale per i più esperti, legati sempre più all’imponderabile lancetta del tempo e quindi della imprevedibile condizione atletica di quello specifico giorno. La vera forza di un atleta in generale e ancor di più di un atleta di uno sport individuale è quella di leccarsi le ferite e rigenerarsi quanto più in fretta possibile per essere più pronto il giorno dopo. E nel tennis questa regola equivale a legge di sopravvivenza.
“Ci metto la faccia”, gridava al mondo tempo fa un Fabio Fognini più arrabbiato di oggi che tiene famiglia. Nel ricordarci le difficoltà di chi comunque sul campo di gioco deve continuamente mostrarsi al mondo nudo, in tutte le sue emozioni, si rivolgeva a chi, sul web, nascosto da un nomignolo, esprime giudizi drastici basandosi su una sconfitta ferendo a sangue chi comunque ha cercato di dare il meglio di sé e non c’è riuscito. L’atleta vive già quel momento con dolore, un angoscioso struggimento interiore come il fallimento del lavoro di settimane e mesi, trascinandosi mille domande e mille paure.
Per vedersi poi demonizzati ad appena 19 anni, come èp avvenuto nei giorni scorsi a ragazzi che il mondo ci invidia come Jannik Sinner e Lorenzo Musetti, “colpevoli”, l’uno, dopo un’ascesa miracolosa, di non battere ancora i più forti nei tornei più importanti e l’altro di ritirarsi, dopo la indimenticabile cavalcata dei due tie-break vinti contro il numero 1 del mondo, peraltro al suo primo tabellone dello Slam? Non hanno certo l’esperienza di Rafa Nadal e Roger Federer, dati per finiti sul web dopo le ultime prestazioni sulle superficie preferite. Sicuramente accusano il peso dell’età e degli acciacchi di una carriera che – ricordiamolo – è molto più lunga degli anni che dice perché il fantastico duo non perdeva al primo turno ma arrivava quasi sempre in finale e quindi disputava più partite.
Tante, tantissime partite. Che, messe sulla bilancia nei tornei dell’immortalità sportiva, come gli Slam, determinano le clamorose rimonte che abbiamo appena vissuto al Roland Garros con la finale Djokovic-Tsitsipas.
Attenzione, lettore. Ci rivolgiamo a quello intellettualmente onesto ma inesperto, non al tuttologo saccente e virulento. La partita dopo e il torneo dopo, nel tennis, possono cambiare tutto e dire l’esatto contrario. “Le somme si fanno a fine carriera”, come recita sempre il filosofo Rafa, cui il famoso zio Toni ha regalato la saggezza. Emettere sentenze premature è sbagliato come salire subito sul carro del vincitore, anche se è una consuetudine molto ma molto italiana. La sfida vera, nel proporre un tennis che ci inorgoglisce, con tanti giovani ragazzi che giocano bene e si comportano meglio in campo, dev’essere quella di sbandierare anche un seguito di popolarità di livello. Proviamoci, tutti insieme. Proviamo a capire quant’è complicato questo sport che non è solo colpire servizio, dritto e rovescio, correre e mostrare il pugno, ma molto molto di più.
Tratta da supertennis.tv