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Tomás Felipe Carlovich era una persona semplice. Come ogni calciatore amava parlare di calcio e quindi di sé. Ma a differenza di tanti altri non si sentiva al centro del mondo, non partecipava al suo mito. Di fronte ai complimenti si scherniva. Ascoltava gli aneddoti con timidezza. A volte ammetteva che c’era qualcosa di vero, “algo hay de esto…”
Amava tanto giocare che la domenica, dopo aver giocato il sabato la partita del campionato, la passava giocando a pallone tutto il giorno con i suoi amici. Parla dei suoi compagni e della squadre in cui ha giocato. Le descrive come “grandi squadre”. Perché il calcio è un gioco di squadra e il piacere lo dà proprio giocare insieme. Un gioco è molto più di uno sport. E se si gioca in squadra ancora di più.
Il calcio forse non è il più bel gioco del mondo ma probabilmente il più irregolare, il più sportivamente ingiusto è quindi il più aperto alla speranza. Per questo, per alcuni, è il più affascinante. Non vige la legge del più forte. Non si parte mai battuti in partenza. I miracoli sono sempre possibili e spesso si realizzano. In realtà, i giocatori più forti non sono necessariamente quelli che segnano di più. L’egoismo del centravanti non mi è mai piaciuto. L’ambizione cambia secondo i ruoli. C’è chi preferisce creare che risolvere una giocata. Non mi stupisce che il Trinche confessi che la soddisfazione più grande gliela procurasse realizzare un passaggio goal.
Nelle sua parole traspare felicità. Non c’è amarezza né rimpianto. Solo nostalgia. Quando gli chiedono di commentare aspetti polemici del suo passato sportivo, decisioni tecniche o ingiustizie subite, risponde che non considera giusto parlare oggi di episodi sui quali, a suo tempo, aveva taciuto. Se allora non aveva sentito la necessità di esprimersi non l’avrebbe fatto nemmeno ora. El Trinche viveva umilmente circondato dal rispetto dei suoi vicini e degli appassionati. Un giorno, quando gli chiesero perché non fosse arrivato al successo professionale, rispose:”Che vuol dire arrivare? Io non ho avuto nessuna altra ambizione che non fosse giocare al calcio. E soprattutto non ho voluto allontanarmi dal mio quartiere, dalla casa dei miei genitori e dal “Vasco” Artola, uno dei miei migliori amici…”
Certo, i miti vanno presi sempre con cautela. Ci fanno sognare ma ci possono anche far dimenticare i contorni meno piacevoli di un contesto. Il Trinche è un mito perché permette di identificarci con un gioco che sentiamo più prossimo ma non per questo certamente perfetto. Il calcio del passato non era certamente un mondo felice. Ieri come oggi il calcio stimolava anche passioni poco nobili e spesso violente. Il calcio del Trinche era un mondo maschile, machista e omofobo. Lo è anche l’attuale mondo del calcio maschile. Oggi, grazie anche alla presenza femminile che, dopo anni di repressione, si esprime anche nel football, esiste almeno una maggiore attenzione critica verso i comportamenti più gravi e offensivi. Anche la violenza e il razzismo sembrano meno tollerati.
Eppure si avverte un peggioramento sensibile nella relazione tra gioco e spettacolo. Lo spettacolo presuppone un grado di distinzione, e di separazione fisica, tra chi ne è protagonista diretto come attore e chi ne usufruisce essendone spettatore. Il grado di separazione e il suo carattere sono tuttavia importanti. Un pubblico competente, capace di identificarsi nel gioco, ne apprezza meglio la qualità. Vi sono immagini di partite di rugby nel Galles degli anni Settanta del secolo scorso, dove i giocatori e il pubblico, composto nella sua maggioranza da uomini con coppola e sciarpa al collo, e che intuiamo essere minatori, compongono una unità coerente seppur differenziata. Qualcosa del genere si avvertiva anche nel football. Si partecipava al gioco.
Certo, anche oggi non si è semplici spettatori, si ha il diritto di sostenere, applaudire o fischiare, influendo sui giocatori. Ma non c’è più la medesima capacità di riconoscere le ragioni che giustificano una reazione o un’altra. I motivi delle reazioni sono spesso più superficiali. La distanza si è ampliata in modo accelerato. Una parte considerevole del pubblico che oggi assiste alle partite del F.C Barcelona al Nou Camp, per esempio, è composta da turisti di tutto il mondo per i quali la visita è parte del pacchetto preparato dal Tour operator. Dopo la visita alla Sagrada Familia e la passeggiata sulla Rambla, il programma prevede di andare a vedere una partita di Messi.
Per essere goduto da un pubblico sempre più ampio, che del calcio sa poco e che con un pallone forse non ha mai giocato, neanche da bambino, il gioco si deve adattare. I goals devono essere tanti. Le sintesi televisive delle partite, quando ci sono, sono un riassunto delle reti e delle azioni contestate. Una volta invece, in certi posti, i bambini, giocando a pallone, si divertivano non solo ricreando i goals dei loro idoli ma anche i semplici gesti tecnici, e persino le “occasioni mancate”.
Il pubblico è aumentato a dismisura su scala planetaria, trasformandosi in una enorme massa soprattutto di utenza televisiva mentre i calciatori delle principali leghe professionistiche sono diventati la base di un prodotto commerciale multimiliaradario. Il calcio giocato tuttavia è e sarà ancora un gioco apprezzabile. Il suo fascino consiste proprio nel fatto che tutti e tutte si possono emozionare seguendolo. E tutte le persone hanno il diritto di goderlo come meglio credono evitando possibilmente gesti e commenti offensivi.
Per molti versi è diventato un gioco più complesso tatticamente, molto più esigente atleticamente, e che quindi eleva anche le esigenze tecniche. Le eleva tanto da condizionare e quasi far sparire alcuni gesti. È diventato così difficile eseguire un dribbling che se ne vedono pochissimi. È così veloce il gioco che quasi non c’è tempo di soffermarsi su un singolo gesto. I campi perfetti e i palloni più facili da colpire cambiano anche il rapporto tra la efficacia del gesto e la sua eleganza. Prima affinché un tiro fosse forte e ben orientato o un lancio fosse teso e preciso la posizione del corpo doveva educarsi a una armonia che oggi non è più così necessaria. Un brutto tiro una volta era una figuraccia, oggi può persino diventare un goal.
Su questo piano la nostalgia verso il calcio del Trinche Carlovich e di tanti altri ha quindi le sue ragioni. Un gioco nel quale si poteva inventare qualcosa anche al di là della sua utilità. Un calcio dove ciò che contava erano il gioco, lo sforzo profusi e il piacere goduto e condiviso entrambi con la propria squadra. E se ciò si sposava con il successo, meglio ancora.
È questa la idea del football in cui, secondo Michael Robinson, al quale i minatori erano particolarmente cari, non ci sono “vincitori e sconfitti”, perché “gli unici sconfitti sono quelli che barano”. Il calcio permette e permetterà ancora tante visioni distinte e molte interpretazioni. La sua bellezza risiede anche nel fatto che, più che in ogni altro gioco e sport, non tutto ciò che vi si svolge e si realizza è perfettamente spiegabile. Il caso e il mistero vi occupano un posto importante.
E, a proposito di mistero, ce n’è uno che avvolge lo stesso soprannome del Trinche. Nemmeno lui sapeva spiegarne l’origine e il significato.
di Rocco Rossetti
Barcellona, 17 maggio 2020