La favola è soltanto all’inizio. Kinjah: “Chris ci prese gusto. Si univa al gruppo, si aggregava agli amici, voleva addirittura stare con me e gli altri corridori quando ci allenavamo. ‘Vengo anch’io’, mi diceva. ‘Non puoi, oggi è troppo lunga’, gli spiegavo, oppure ‘oggi è troppo dura’. Ci rimaneva malissimo. Ma in breve divenne il migliore. Sua mamma era preoccupata: temeva che si stancasse, che non ce la facesse, che cadesse e si ferisse. Invece se la cavava. Negli allenamenti verso le piantagioni di caffè e sulle colline Ngong, a nord di Nairobi, e anche nelle gare. Insieme abbiamo fatto viaggi caricando le bici sui pullman, poi scendendo e pedalando. Chris era l’unico bianco del villaggio, a Kikuya. Tutti pensavano che fosse un po’ matto, per la passione per la bici, ma a lui non gliene importava nulla. Mai creato problemi. Era semplice: si accontentava di quello che c’era, certe volte ha dormito anche sul pavimento della mia casetta. All’inizio gli davo la mia roba: maglie, pantaloncini, scarpe, tre numeri più del suo piede. Un giorno al mercato ho comprato una maglia gialla e, dopo una vittoria, gliel’ho regalata. Invece qualche anno fa è stato lui a regalarmi un paio di scarpe per risarcirmi di quelle che gli avevo dato”.
La favola continua, favolosamente sorprendente. Perché a 19 anni Chris abitava in Sud Africa e il Tour se lo guardava alla tv. Perché a 22 anni è passato professionista in una squadra sudafricana di terza fascia e ha vinto una tappa al Giro delle regioni, una specie di piccolo Giro d’Italia dei dilettanti. Perché a 23 anni è stato ingaggiato da una squadra sudafricana di certificato ma italiana di organizzazione, di seconda categoria, ha partecipato al Tour de France e lottato per non finire fuori tempo massimo. Perché a 25 anni – ormai da inglese – è emigrato alla Sky, ha preso il via al Giro d’Italia del 2010, ma è stato espulso per essersi fatto trainare dall’ammiraglia in un tratto di salita.
Eppure quel pulcino bianco in un continente nero, e poi quel pulcino bagnato in una squadra di aquile e lupi non solo è sopravvissuto, ma è diventato addirittura il re della foresta: secondo alla Vuelta 2011 (da gregario di Brad Wiggins, che mai lo amerà), secondo al Tour 2012 (sempre da gregario di Wiggins), e poi primo al Tour nel 2013, 2015, 2016 e 2017. Scalatore frullatore e cronoman polivalente, capitano severo di una squadra severissima, una magrezza al limite della anoressia e una tecnologia al confine dell’automatismo, tanto brutto a vedersi quanto efficace a rivelarsi, Froome è il protagonista di una favola che però non entra nel cuore del popolo del ciclismo: più fischi che applausi, più sospetti che elogi, più rassegnazione che ammirazione.
Gentile, educato, poliglotta (anche in italiano), Froome non convince gli scettici, soprattutto quelli che osano accennare al doping genetico. Troppo improvvisa la sua ascesa (l’autobiografia s’intitola “The Climb” in inglese e “Ascension” in francese), troppo concentrata la sua attività (imbattibile al Tour, piazzato alla Vuelta, inesistente altrove), troppo chiusa la sua squadra (la Sky, coinvolta in alcune operazioni illegali). Ma fino a prova contraria, e con il beneficio di inventario, Froome de France sta scalando la storia. “Marchons, marchons. Qu’un sang impur abreuve nos sillons!”.
Marco Pastonesi