Il giorno prima della cerimonia inaugurale dell’Olimpiade, che comincia stasera alle 8 (l’una del pomeriggio in Italia), nel cielo di Tokyo cinque aerei hanno disegnato, con scie di fumo bianco, i 5 cerchi che caratterizzano i Giochi. Non è la prima volta che accade, in questo stesso cielo. Il 10 ottobre 1964, poco dopo le 3 del pomeriggio, altri cinque jet dipingono questa immagine in “un cielo limpido come se fosse l’unione di tutti i cieli blu del mondo”, parole dello speaker ufficiale della Cerimonia inaugurale della 17ma Olimpiade. E’ la parte finale di quello che è un vero rito, non solo sportivo, cominciato alle 13.30, proseguito alle 13.50 con l’ingresso della bandiera olimpica nello Stadio Nazionale, alle 14 con la sfilata delle delegazioni e alle 15.03 con il momento più toccante. L’ultimo tedoforo, Yoshinori Sakai, accende la fiamma del tripode. E’ nato il 6 agosto 1945, a Hiroshima, un’ora dopo l’esplosione della prima bomba atomica della storia, che distrugge la città alle 8.15 del mattino, con la tragica e iconica testimonianza di orologi con le lancette rimaste ferme in quell’istante.
Lui è il simbolo della volontà di rinascita di un Paese sconfitto dalla guerra, ma che è stato in grado di ricostruire dalle macerie. E adesso, 57 anni dopo, quei 5 cerchi giganteschi nel cielo sono l’unico tratto in comune fra due edizioni dei Giochi che appaiono sideralmente lontane. Nel 1964, il suono di diecimila tamburi dà il via alla Cerimonia inaugurale. Stasera, ci saranno solo suoni registrati per spezzare il silenzio di uno stadio deserto, con mille persone nelle tribune e ridotte delegazioni di atleti sulla pista. E nemmeno quei 5 cerchi bianchi nel cielo blu si potranno vedere, oscurati dal buio della sera, dalla nuova consuetudine del via alle ore 20, in uno scenario inventato per far risaltare i giochi di luce, ma che in questa occasione non potranno brillare come al solito, spenti dalla pandemia del Covid-19.
Tornare indietro, forse, può aiutare a capire meglio anche le differenze fra le due Olimpiadi giapponesi e vedere quest’ultima illuminata da una luce diversa, meno potente ma, chissà, più vera. E quel 1964 non è poi così lontano come può apparire. Il Giappone, in quel mondo, appare ancora misterioso e magico. Quella è la prima Olimpiade in Asia. L’edizione del 1940 era stata assegnata a Tokyo, ma fu cancellata per la guerra. Adesso, 19 anni dopo la fine di una follia criminale di cui i giapponesi erano stati i responsabili insieme a tedeschi e italiani, è il momento della pace, dell’abbraccio fra i popoli. Le incomprensioni che restano solo legate soltanto alle differenze di cultura, storia, tradizioni, modi di pensare, che però, alla fine, si rivelano non così profonde.
Il primo impatto “popolare”, se possiamo definirlo così, lo si deve grazie al cinema. Il Giappone irrompe nel mondo occidentale grazie soprattutto a un regista, Akira Kurosawa, che nel 1950 stravolge regole e abitudini del racconto sullo schermo con Rashomon, che nel 1951 vince il Leone d’oro alla Mostra di Venezia. Nel 1952 gli viene riconosciuto l’Oscar onorario come miglior film straniero, ma non è assegnato ufficialmente perché questa sezione non è ancora stata riconosciuta dall’Academy, lo sarà a partire dal 1957. La storia, un delitto raccontato da tre testimoni e dall’assassino con versioni diverse, viene interpretata in Occidente, e particolarmente in Italia, secondo una visione pirandelliana, di una verità difficile da appurare. Lo stesso regista preciserà che la sua interpretazione è leggermente diversa: non la difficoltà di stabilire una verità, che nel racconto del film è chiara e precisa, ma il modo in cui ogni persona interpreta quella verità e la cambia, pur essendo stabilita. La differenza sostanziale, rispetto alla visione pirandelliana e occidentale secondo la quale non si sa quale sia la verità, è che lo spettatore “sa” qual è la verità. L’impatto spettacolare e culturale è grande, il Giappone diventa più vicino, Akira Kurosawa proseguirà in una carriera maestosa, con I sette samurai, Leone d’argento a Venezia nel 1954 (che diventerà Per un pugno di dollari nella versione di Sergio Leone, accusato di plagio, ma portatore di un modo nuovo e fondamentale di raccontare il western) e con tanti altri successi, con l’Oscar ufficiale nel 1976 per Dersu Uzala, il Leone d’oro alla carriera nel 1982 a Venezia, la Palma d’oro nel 1980 a Cannes per Kagemusha, che insieme a Ran (versione giapponese dello shakespeariano Re Lear) si avvicina, adesso sì, molto di più a Pirandello.
Il Giappone, quindi, diventa una presenza importante, un Paese che il mondo ha voglia di conoscere meglio, un popolo che gli occidentali vogliono incontrare, capire. Gli organizzatori dell’Olimpiade decidono di puntare proprio su Kurosawa per il film ufficiale dei Giochi. Può apparire strana l’importanza data al film olimpico in quei tempi, ma bisogna far presente che all’epoca il film ufficiale dell’Olimpiade viene distribuito nelle sale cinematografiche, come tutti gli altri. E’ quello che accade per “La grande Olimpiade”, di Romolo Marcellini, il film dei Giochi di Roma 1960, che viene anche candidato all’Oscar 1962 nella categoria dei Documentari. Il film dei Giochi di Tokyo 1964, poi, sarà l’ultimo, almeno in Italia, distribuito nelle sale. Perciò, i giapponesi tengono molto a realizzarlo e puntano sul loro regista più famoso. Akira Kurosawa, però, rifiuta. Così, la scelta cade su Kon Ichikawa, meno famoso di Kurosawa, ma anche lui artista di grande spessore e conosciuto in Occidente grazie al suo capolavoro, L’arpa birmana, del 1956.
Ichikawa è un regista d’avanguardia, che soprattutto nella parte finale della carriera, insieme a sua moglie, Yumiko Mogi, anche lei regista, compone opere sperimentali con tecniche e soggetti che precorrono i tempi. Nella parte “classica” della carriera, ad ogni modo, non tradisce la sua natura d’avanguardia e L’arpa birmana è il perfetto esempio di questo stile. La storia è ambientata in Birmania nel 1945, il protagonista è un soldato giapponese che, scosso dalle atrocità della guerra, decide di diventare bonzo e restare in quella terra anche dopo la fine della guerra per dare sepoltura ai morti rimasti sui campi di battaglia. I suoi compagni, che lo credevano morto, lo riconoscono quando stanno per tornare in Giappone, gli chiedono di andare con loro, ma lui imbraccia un’arpa e suona il “Canto dell’addio”. All’epoca, pur dopo una guerra in cui era stato sconfitto, il Giappone conserva una cultura “militare” e un film pacifista come quello di Ichikawa è un autentico urlo che sconvolge modi di pensare e tradizioni millenarie. Il film partecipa alla Mostra del cinema di Venezia 1956, la maggioranza dei giudici vuole assegnargli il Leone d’oro come miglior film, ma la Giuria è spaccata, contro il cinema asiatico in particolare si schiera Luchino Visconti. Il risultato è che i due premi maggiori, Leone d’oro e Leone d’argento non vengono assegnati, ma L’arpa birmana è chiaramente il film moralmente vincitore. Il pubblico lo esaltò, i critici d’accordo nel giudicarlo degno del Leone d’oro e nell’attaccare la “non decisione” della giuria.
Kon Ichikawa applica al film sull’Olimpiade la sua visione alternativa, non è un racconto sulle medaglie e sui vincitori in particolare, ma sulle storie, sui personaggi considerati “perdenti” ma umanamente più coinvolgenti, è un film sulle emozioni, più che sulle gare, con interpretazioni diverse e moderne anche nella tecnica di ripresa. Da quest’ultimo punto di vista Ichikawa viene accostato a Leni Riefenstahl, autrice del film ufficiale sull’Olimpiade di Berlino 1936, ma è evidente la differenza sia culturale, sia di stile. A una Riefenstahl che esalta la visione nazista dello sport e si inchina a Hitler si contrappone un Ichikawa che si ribella a qualsiasi visione autoritaria e si mette chiaramente e sfrontatamente dalla parte degli umili, dei coraggiosi. Puoi essere bravo tecnicamente e anche innovare, come la Riefenstahl, ma avere uno spessore umano miserabile, al cui confronto Ichikawa si erge da gigante, come uomo e come regista. E proprio questo suo spessore gli provoca problemi con gli organizzatori giapponesi, che non gradiscono molto il suo lavoro sull’Olimpiade, tant’è che nel corso degli anni il film viene da loro fatto rimontare parecchie volte, col risultato che ne esistono tante edizioni diverse e l’originale di Ichikawa, quella vera, è probabilmente perduta. Una di queste versioni si trova in internet a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=WHt0eAdCCns
Il significato profondo che Ichikawa ha voluto dare al film comunque non è del tutto perduto. In questa copia se ne conserva quasi tutto il valore. Nell’edizione distribuita in Italia nel 1965, e che ho visto in quell’anno, quindi nella versione originale, c’è un particolare che manca in quella del link che ho allegato ed è qualcosa che mi permette di ricollegare Tokyo 1964 a Tokyo 2021. Prima però bisogna risalire a Roma 1960 e alla sua Cerimonia di chiusura. Come si ricorderà, alla fine di quella serata accadde qualcosa che non si era mai visto in tutte le precedenti Olimpiadi. Il pubblico, dopo che la fiamma olimpica del tripode si era spenta, si inventò una vera magia per tenerla accesa: gli spettatori presero la carta dei giornali, le diedero fuoco e la trasformarono in torce. Lo stadio Olimpico, sceso nel buio, si illuminò di nuovo con tutte quelle fiammelle che trasmisero al mondo l’amore degli italiani per l’Olimpiade, per lo spirito dello sport. E’ un’immagine che tuttora fa emozionare.
E arriviamo a Tokyo 1964. La fiamma olimpica del tripode si spegne, sul grande schermo dello stadio compare la scritta “SAYONARA”, il dolce arrivederci giapponese. Ed ecco, improvviso e inaspettato, il saluto che i giapponesi rivolgono all’Olimpiade: gli spettatori accendono lampadine elettriche, un mare di piccole luci trasforma lo stadio. Luci piccole, come una miriade di lucciole, ma capaci di illuminare la notte. Luci fredde, ma quanto calore nei cuori di chi le ha accese. I giapponesi replicano, nella loro maniera, la splendida fiaccolata romana. Lì dove credi di trovare una gelida realtà elettronica, una visione alla “Blade runner” e agli schermi giganti con il volto di donne giapponesi che appaiono nelle strade in quel film in uno scenario scuro e piovoso, una armata di cittadini disciplinati e inquadrati in schieramenti militari, scopri invece una scintilla di magia, senti fievole ma potente il battito di un cuore che si apre al mondo.
Ci mancheranno quei cuori giapponesi stasera e la sera della Cerimonia di chiusura, ma, se ci addentreremo nel silenzio, riusciremo a sentire, distante ma poco alla volta più vicino, debole ma sempre più risuonante, il tum tum di un cuore che ci sembrerà un tamburo lontano e torneranno a riecheggiare, in uno stadio apparentemente vuoto, i diecimila tamburi della Cerimonia inaugurale di 57 anni fa.
Dal nostro inviato Gennaro Bozza
(Foto tratta da repubblica.it)