Estate di cinquant’anni fa. Il mondo, che in questo 1972 sarà scosso da colpi formidabili come la strage degli atleti israeliani all’ Olimpiade di Monaco, la visita di Richard Nixon in Cina e l’avvio dello scandalo Watergate, in Italia il processo per la bomba di piazza Fontana, scopre un brivido nuovo: gli scacchi. L’11 luglio comincia a Reykjavik, in Islanda, la finale del Mondiale fra il campione in carica, il sovietico Boris Spasskij, e un cavaliere da leggenda, lo statunitense Bobby Fischer. Il 23 luglio, dopo una serie già inimmaginabile di emozioni che ha portato Fischer a rimontare da 0-2 fino alla parità sul 2 e ½, comincia la sesta partita della sfida, che sarà poi ricordata come quella degli “Applausi”, una delle più grandi, più belle e famose della storia degli scacchi.
Quando Spasskij si rende conto di aver perso, si alza in piedi e applaude Fischer, una scena che non è mai vista fino ad allora, ancor più incredibile se si considera il momento storico, la Guerra Fredda fra Urss e Usa, la rivalità che sconfinava nell’odio, nel desiderio di supremazia mondiale, e che riguardava tutti i campi, non solo la politica, per arrivare fino allo sport. Si proseguirà fino all’1 settembre, quando Fischer conquisterà il titolo mondiale col punteggio finale di 12,5 a 8,5. Ma è in questa sesta partita che è racchiuso il senso di una sfida che va oltre gli scacchi, che anche a distanza di 50 anni resta il più alto riferimento storico di uno sport che è allo stesso tempo una discesa nella profondità dell’animo umano, tanto da oscurare i pur magnifici giocatori che sono venuti dopo, mai riusciti a suscitare l’attenzione e la passione del mondo intero così come ha fatto la finale Fischer-Spasskij.
LA GENESI DELLA RIVOLUZIONE
Partite spettacolari e geniali Fischer ne ha giocate sin dalla sua “apparizione” come ragazzo prodigio. A soli 13 anni e mezzo vince contro l’altro statunitense Donald Byrne, 23 anni, futuro Maestro Internazionale e già protagonista di vittorie importanti anche nelle sfide con l’Unione Sovietica. I giornalisti americani la definiscono “La partita del secolo”, non solo per la sua bellezza, ma per la spettacolarità, l’imprevedibilità e l’originalità del gioco di Fischer che, alla 17ma mossa, compie un incredibile sacrificio di Regina e comincia letteralmente a stritolare Byrne che addirittura non riesce nemmeno più a muovere la sua Regina, per poi arrendersi di fronte all’avanzata dei pezzi cosiddetti “minori”, un Cavallo e due Alfieri, che poco alla volta stringono il Re in un angolo e lo soffocano. E’ scacco matto alla 41ma mossa con una ulteriore particolarità: Fischer può dare il matto con due differenti pezzi allo stesso tempo, la Torre o l’Alfiere, a riprova del suo dominio sulla scacchiera. E tutto questo senza la Regina. E tutto questo con il nero. Sì, perché negli scacchi chi ha i pezzi bianchi ha il vantaggio della prima mossa e di solito attacca, chi ha i neri tende a difendersi. Fischer, sin da quando è solo un ragazzo, diventa l’eroe che rivoluziona il mondo degli scacchi. Gli altri, quando hanno i pezzi neri, si difendono? Lui no. Lui attacca anche con i neri e sconvolge le regole. E’ la genesi del radicale cambiamento negli scacchi. Ci vorrà tempo affinché arrivi a compimento, ma la strada è tracciata da questo genio tredicenne.
LA MITICA SESTA PARTITA
E dopo tantissime altre partite fenomenali si arriva alla sfida mondiale del 1972. In breve, ricordiamo le difficoltà per arrivare al via, le accuse di Fischer ai sovietici di accordarsi fra loro nelle partite di qualificazione per eliminare concorrenti stranieri, le sue richieste di non avere riprese televisive, poi di andare a giocare in una piccola sala senza pubblico, poi il ritorno in una sala più grande. Ci sono mille bizze che provocano nervosismo allo stesso Fischer, anziché a Spasskij, e lo portano a perdere il primo incontro e lo inducono a non presentarsi alla seconda partita, tanto da far credere, sullo 0-2, che potrebbe abbandonare. Secondo la leggenda, è una telefonata di Henry Kissinger a fargli cambiare idea. Nella realtà, Fischer, come dimostrerà anche in seguito, non obbedisce a «ragioni di Stato». Lui è un cavaliere solitario, e da solo va all’ assalto della fortezza sovietica. Si presenta, vince la terza partita, risorge dalle sue ceneri e dà il via a una rimonta entusiasmante. E la sesta partita segna il sorpasso e l’ingresso nella storia.
Per capirla meglio bisogna considerare questo: quando ha il bianco, Fischer comincia sempre (o quasi sempre) con la stessa mossa, il Pedone di Re che avanza di due caselle: e4. Questo potrebbe dare l’impressione di una debolezza nelle aperture, che invece sono espressione della sua genialità. E lui stesso che, autoironicamente, nel suo libro “60 partite da ricordare”, nel commento a due partite parla di questa apertura: “La mossa migliore… sperimentalmente” (contro lo statunitense Arthur Bisguier nel Campionato Open dello Stato di New York nel 1963) e “Per una questione di principio, non apro mai in modo diverso” (contro il sovietico Leonid Stein nel Torneo Interzonale di Sousse nel 1967). In questo libro ci sono 37 partite in cui Fischer ha iI bianco e deve muovere per primo, in tutte e 37 la sua mossa è e4. Il bello è che, rarissime volte, a sorpresa, ha usato un’apertura diversa. Una proprio nella sfida mondiale con Spassky, nella sesta partita: “c4”. Prima di questa, aveva aperto soltanto una volta con c4, nel 1970 contro il sovietico Lev Polugajevskij nel torneo Interzonale a Palma di Majorca. Spasskij resta sorpreso, per lui comincia un viaggio in un territorio sconosciuto mentre Fischer inventa, una dietro l’altra, mosse che sovvertono i principi tradizionali degli scacchi e che illuminano la scacchiera fino alla spettacolare chiusura con Regina, Torre e Alfiere in contrapposizione a Regina e due Torri di Spasskij, quindi teoricamente col sovietico avvantaggiato ma concretamente impossibilitato a resistere alla tremenda onda d’urto di Fischer. E allora Spasskij si rende conto di cosa sta davvero accadendo, di come nello scorrere eterno del tempo questo momento resterà fisso, sfolgorante pietra miliare che indicherà la strada a tutti gli scacchisti che verranno. E si alza in piedi e applaude, anche lui gigante davanti al più grande di tutti i tempi.
L’ARMATA DI DUE SOLI UOMINI
Ormai, è follia per gli scacchi dovunque. La gente si appassiona, persino sulle spiagge compaiono miniscacchiere su cui si riproducono le mosse della grande sfida. Ci vorranno altre partite, non certo facili, ma Fischer è lanciato verso il titolo e supera ulteriori grandi difficoltà, come nella tredicesima, che viene sospesa quando la situazione sembra portare a una patta. Si deve riprendere il giorno dopo. Fischer, che gioca col nero, resta sveglio tutta la notte per trovare la mossa decisiva. E quando riparte, straccia Spasskij che resta a lungo seduto al tavolo, incredulo. È il momento decisivo, il sovietico è distrutto, Fischer prende il volo, chiude con una vittoria nella 21ma partita: il punteggio finale è 12,5 a 8,5. E la vittoria è ancora più significativa se si pensa a quali “Armate” si affrontano sulla scacchiera e fuori. Spasskij ha dietro di sé altri grandi giocatori sovietici che esaminano le mosse, studiano nuove soluzioni e, quando una partita viene interrotta per riprendere il giorno seguente, le discutono con Spasskij per decidere come procedere. Un esempio clamoroso di questa “santa alleanza” è un incontro in cui Fischer aveva messo in difficoltà il sovietico Michail Botvinnik, tre volte campione del mondo, uno dei più forti di sempre come riconosciuto dallo stesso Fischer. Dopo la sospensione serale, una intera squadra di Grandi Maestri sovietici studiò cosa fare finché uno di loro, fra i più forti scacchisti dell’epoca, Efim Geller, trovò la mossa giusta per ribaltare la situazione. Fischer, al contrario, non aveva questo squadrone alle sue spalle, ma un solo uomo, un prete: William Lombardy, statunitense, ex giocatore di scacchi, molto forte, che poi decise di diventare sacerdote. Eccola qua, la “Invincibile Armata” di soli due uomini che si batte contro uno sterminato esercito.
LA “PROFEZIA” DI ZWEIG
Proprio questa particolare alleanza fra Fischer e un prete rende ancor più inquietante una specie di premonizione dello scrittore austriaco Stefan Zweig, che nel 1941 scrive “Novella degli scacchi”, un racconto lungo che sembra predire l’avvento di un tipo di campione fuori dagli schemi, che per molti versi sembra incarnato, ottanta anni dopo, da Fischer. E partiamo proprio da lui con un ritratto che ne ha fatto Reuben Fine, statunitense, Grande Maestro negli anni Quaranta, che ha scritto il libro “La psicologia del giocatore di scacchi”. Ecco la descrizione che ne fa Fine: “Fischer è un caso a sé, perché si è dato agli scacchi più di ogni altro suo predecessore: mangia, pensa e respira pensando soltanto agli scacchi”. In effetti era questa l’idea che quasi tutti avevano di lui, non di una persona colta, ma di un uomo antisociale, antisemita nonostante sua madre fosse di origini ebraiche, tant’è che lui diceva di “non essere ebreo” per poi deriderli (“Ci sono troppi ebrei negli scacchi. Sembra che abbiano portato via la classe del gioco”), assertore dell’inferiorità della donna (“Sono tutte deboli, sono stupide se paragonate agli uomini”), pieno di paranoie. Magari, alcune di queste caratteristiche erano esagerate o frutto di sue esasperate visioni della vita, e non era poi così ignorante come qualcuno lo descrive, tant’è che in una intervista a Giovanni Mosca nel 1972, per il Corriere della Sera, dice cose interessanti che fanno capire come la sua cultura non fosse poi così scarsa, come vedremo fra un po’, ma è chiaro che il suo mondo si riduceva agli scacchi e a quasi niente altro.
E arriviamo a Zweig. Di origini ebraiche, si schierò contro il nazismo e fu costretto a fuggire, a Londra, poi a New York, infine in Brasile, dove si suicidò insieme alla moglie il 22 febbraio 1942. “Novella degli scacchi” è la sua ultima opera, scritta nel 1941. Il protagonista del racconto di Zweig è uno scacchista sovietico, Mirko Czentovic, campione del mondo, ma grezzo, asociale e con nessuna cultura, del tutto ignorante, attaccato al denaro tanto da chiedere di essere pagato per ogni partita. Da ragazzo si appassiona agli scacchi e viene scoperto da un prete, che gioca con lui e perde, intuisce il suo straordinario talento e lo fa diventare giocatore professionista. Il modo in cui si sviluppa poi il racconto non è fondamentale, entrano in ballo altri personaggi, ma Czentovic rimane un nodo centrale e, soprattutto, è la sua essenza la cosa importante perché è una figura che riporta in modo impressionante a Fischer. E allora, chissà da quale buco spazio-temporale Zweig in qualche modo ha visto o intuito il futuro di quale tipo di uomo sarebbe diventato campione del mondo di scacchi, scegliendo il più estremo, scegliendo, 80 anni prima della sfida di Reykjavik, una copia quasi perfetta di Bobby Fischer.
STEREOTIPI E SORPRESE
Ma se è vero che il mondo per Fischer si riduce, all’apparenza, solo agli scacchi, è anche vero che da una parte lui favorisce questa visione della sua personalità con comportamenti che la assecondano, dall’altra riserva qualche sorpresa. Così, a favore della personalità estrema ci sono molti esempi. Il suo essere sfrontato si riconosceva quando giocava contro qualcuno che aveva inventato una variante nelle aperture, lui usava proprio quella variante alla quale, nel corso della partita, apportava una variante di sua invenzione, come accade in una partita contro Najdorf. A proposito delle sue convinzioni sull’inferiorità delle donne, all’Olimpiade di scacchi di Varna dichiarò che, per una borsa di 3.000 dollari era pronto a giocare contro la campionessa del mondo Nona Gaprindashvili senza un cavallo. Proposta non accettata. E allora, per dimostrare la sua forza, disse che avrebbe battuto Najdorf in 25 mosse: vinse in 24. Il suo ego non aveva bisogno di ulteriori spinte, ma persino Mikhail Tal, campione del mondo sovietico, dopo aver perso con lui al Torneo di Bled nel 1961, disse di lui: «È difficile giocare contro la teoria di Einstein».
Ma c’è anche qualcosa che ribalta l’immagine di insensibilità, di ignoranza culturale e umana, che lo ha contraddistinto: sosteneva coi suoi soldi l’educazione di 50 bambini neri negli Stati Uniti, che ammetteva di non avere studiato ma dei suoi mancati studi rimpiangeva solo di non aver imparato la lingua latina, definita da lui una “architettura” della mente, tanto che la riteneva la base per diventare campioni di scacchi e si diceva sorpreso del fatto che dall’Italia non arrivassero centinaia di grandi scacchisti. Così diceva a Giovanni Mosca: «Una cosa sola mi dolgo di non aver studiato: il latino. Aiuta a giocare bene agli scacchi. È una lingua che serve a inquadrare la testa. È un’architettura. Strano che voi italiani non abbiate centinaia di campioni». La risposta desolata: «Perché siamo l’unico Paese che non studia il latino». E poi scherzava in latino col suo maestro, padre Lombardy, chiedendogli cosa sarebbe successo nella sfida con Spasskij per il titolo mondiale. “Come vedi regem meum?”. «Regina eum liberat a malo». “Amen”. Tutto questo era contenuto, come accennato prima, in un articolo di Giovanni Mosca, padre di Maurizio, ben noto giornalista sportivo. Era stato inviato a Reykjavik e si firmava solo Mosca sul Corriere della Sera. Un ampio stralcio del suo pezzo con l’intervista a Fischer, che fa capire molto del campione statunitense, lo trovate alla fine di questo articolo.
I PIU’ GRANDI CAMPIONI
Cosa pensava Fischer degli altri campioni di scacchi? Nel 1964 lui fece un elenco di quelli che considerava i dieci più forti di ogni tempo, ovviamente dopo di lui: Paul Morphy (1837-1874), Howard Staunton (1810-1874), Wilhelm Steinitz (1836-1900), Siegbert Tarrasch (1862-1934), Mikhail Cigorin (1850-1900), Alexander Alekhine (1892-1946), José Raul Capablanca (1888-1942), Boris Spassky (1937, vivente), Mikhail Tal (1936-1992), Samuel Reshevsky (1911-1992). Le sue motivazioni, in alcuni casi, apparivano paradossali. Nel 1970 corresse l’elenco: Morphy, Steinitz, Capablanca, Tal, Spassky, Reshevsky, cui aggiunse Mikhail Botvinnik (1911-1995), Tigran Petrosian (1929-1984), Svetozar Gligoric (1923-2012), Bent Larsen (1935-2010). Fece scalpore il fatto che avesse escluso il russo Alekhine, considerato da molti il più grande di sempre, fra l’altro anche lui accusato di essere antisemita (una coincidenza paradossale) e morto nel 1946 proprio nel giorno in cui avrebbe dovuto discolparsi, in Francia, perché era diventato naturalizzato francese, da questa accusa e da una ancora più grave: collaborazionismo con i nazisti, essendosi rifiutato di intervenire in difesa di un famoso giocatore polacco, Dawid Przepiorka, che fu ucciso nel 1940 in un campo di concentramento.
IL SALUTO FINALE
La conquista del titolo di campione del mondo è il culmine non solo della carriera di Bobby Fischer, ma anche della sua vita, che è sempre coincisa con gli scacchi. Da questo momento in poi, sarà solo una lunga discesa all’inferno, prima con la rinuncia alla sfida mondiale con il sovietico Anatolij Karpov, poi con una interminabile serie di sparizioni, polemiche, guai con la giustizia statunitense culminati con l’arresto all’aeroporto di Tokyo nel 2004 e poi risolti con la concessione del passaporto islandese che gli permetterà di ritirarsi nella terra del suo trionfo più grande, dove morirà il 17 gennaio 2008, a 64 anni, coincidenza col numero delle caselle della scacchiera che sarà interpretata come l’ultimo segno dell’inscindibilità di Fischer e gli scacchi.
Ma tutto questo, poco alla volta, svanisce. Di Robert James Fischer restano soltanto la sua genialità, le sue imprese, l’aura di mistero e di leggenda che lo ha sempre circondato e lo ha illuminato di una luce magica. Tutti i nomi degli altri campioni mondiali, quelli prima di lui e quelli che sono venuti dopo, diventano sconosciuti per la gente comune, per tutti quelli che hanno solo sentito parlare vagamente degli scacchi. Ma ognuno di questi, appena sente il nome di Fischer, lo riconosce, ricorda che tanto tempo fa ci fu una sfida leggendaria fra un cavaliere senza esercito e un potentissimo Impero. E a vincerla è il genio solitario che diventa campione del mondo alla fine di un’estate che resterà nella memoria e nei cuori.
Appendice
Stralcio dell’articolo di Giovanni Mosca, sul Corriere della Sera, luglio 1972.
Fischer, nemico di tutti e di tutto, perciò anche delle interviste. Le ritiene inutili. Come le ritengo io, del resto. Mi deludono sempre. Il personaggio è bello immaginarselo. È allora che diventa vero. Ma Fischer è sempre vero. Non recita, come invece tutti i personaggi importanti, la propria parte. Non è attore. Fosse attore, non giocherebbe con la cravatta viola, colore che in teatro viene considerato apportatore di sventura. Venerdì sera, quando ha stracciato Spassky, portava la cravatta più viola del mondo.
L’amico danese è riuscito a persuaderlo ad ammettermi tra i commensali, al Naust, dicendogli che parlo il latino, cosa che lo affascina, vi dirò fra poco perché.
Eccoci dunque al ristorante, davanti al quale è caduto il gabbiano. Siamo in sette. Fischer, Collins, il povero, piccolo giocatore di scacchi che fu il suo primo maestro, inchiodato in una carrozzella, la sorella di Collins, padre Lombardy, il consigliere, il negro Brown, una specie di factotum, devoto come un cane, l’amico danese, ed io. Fischer nel dubbio. Sono giornalista o un campione italiano di scacchi?
Me lo domanda subito. Rispondo: «Giornalista». Padre Lombardy sobbalza. «Tradimento!». Giovane, grasso, vestito in borghese, ma tutto di nero. Fischer gli preme con la mano sulla spalla. «Zitto. Collins, lo teniamo ugualmente con noi?». Collins fa cenno di sì, me lo sono lavorato, quando, di giorno, è solo soletto nell’atrio dell’albergo, e guarda i gabbiani e gli aerei. «Betty, tu?». «Con noi». Betty che il pomeriggio va a dormire, mi è grata della compagnia che faccio al fratello.
«Zio Brown?». A zio Brown ho raccontato di Garibaldi. È dalla mia parte. Sogna una camicia rossa. Tutti d’accordo perciò.
«Chi parla per primo?».
«Lei, Fischer. Io non debbo che ascoltare».
«Lo sa che mi si accusa di vendere care le interviste che concedo?».
«Lo so».
«Quanto mi dà?».
«Non una lira».
«Bene, ha ragione. Sono nato nel 1943 dalle parti di Chicago, in campagna, miseria nera. Mia madre disperata. Perché studiassi, faceva, povera donna, tutti i lavori possibili, ma ero un pessimo scolaro. La colpa è di quello lì, che mi fece innamorare degli scacchi». È un rimprovero che fa arrossire di piacere Collins. «Sono di una ignoranza sovrana. A undici anni, lasciai tutto, e mi misi a giocare contro chiunque fosse disposto ad accettarmi per avversario a un dollaro per partita».
«E 25 centesimi di li dava a me!», grida Collins.
«Non è vero».
«Verissimo, è buono come il pane».
«Collins ha una cattiva idea del pane. Io sono un individuo detestabile. Il mio ideale sono gli scacchi e i quattrini. Voglio diventare ricchissimo. Se vinco il campionato, lo metto in palio ogni anno. Voglio accumulare milioni di dollari per poter giocare tranquillo fino alla morte e per vendicarmi di quanti fino ad ora si sono stretti contro di me per impedirmi di arrivare alle finali. Milioni di dollari. Non mi disprezzi per questo. Tutti vogliono diventare ricchi, ma nessuno lo dice. Io, invece, lo grido. Padre Lombardy, faccio peccato?».
«Non gli dia ascolto. Vuole diventar ricco non soltanto per vendicarsi. Fa del bene a cento persone. Zio Brown, che ne dice?».
L’aspirante camicia rossa trae di tasca una lettera firmata da 50 bambini. «Tutti negri come me. Senza di lui il collegio non andrebbe avanti».
«Quando saranno un po’ più grandi — fa Fischer — insegnerò loro a giocare a scacchi. Cinquanta figli, tutti campioni. E senza moglie, ringraziando Iddio; non è vero, padre Lombardy, che i grandi campioni di scacchi sono come i grandi pianisti? Non si debbono sposare. Spassky ha commesso un errore madornale. Noi giochiamo a scacchi non soltanto quando ci vedete voi, ma tutti i giorni, in casa, per ore e ore. Un allenamento continuo, ossessionante. Guai a saltare un giorno. Come i pianisti, i quali, però, hanno il vantaggio di potersi allenare da soli. Io devo trovare sempre avversari, e grossi. Mi sposo quando si sposa padre Lombardy».
«Non scherzare. Potrei gettare la tonaca alle ortiche».
«Figuriamoci se lo fa. È un cattolico incallito. Un papista arrabbiato. Ma gli voglio bene ugualmente. Gioca a scacchi come un bambino di tre anni, eppure sa darmi consigli diabolici. Zio Brown, va’ a vedere se questo salmone di fiume lo portano o no, lei sa il latino. Una cosa sola mi dolgo di non aver studiato. Appunto, il latino. E sa perché? Perché aiuta a giocare bene agli scacchi. Lasci stare me, che sono un fenomeno, ma la maggior parte dei grandi giocatori ha fatto gli studi classici. È una lingua che serve a inquadrare la testa. È una architettura. Strano che voi italiani non abbiate centinaia di grandi campioni».
«Non è strano. Siamo l’unico paese che non studia il latino».
Padre Lombardy, anzi, diciamolo pure, padre Lombardi, perché questo è un italiano travestito da americano, come vedi, per la prossima partita, regem meum?».
«Regina eum liberat a malo».
«Amen. Spassky, la sua regina ce l’ha, in carne ed ossa. Io non ho che quella della scacchiera, una regina d’avorio. Ma ho il mio caro Collins. Cosa mi dici?».
«Dai sotto, Bobby!» salta su il poveretto, con un gesto che fa tremare tutta la carrozzella, come se incoraggiasse un giocatore di baseball.
Gennaro Bozza (Foto tratta da iltascabile.it)