Quando gli ho domandato perché volesse scrivere un libro, mi ha schiacciato. “Perché ci sono tanti che guardano solo fuori e non dentro, sopra e non sotto, o anche sotto e non sopra, dietro e non oltre, e mai attraverso, che insomma si fermano alle apparenze, che stanno in superficie e non scendono in profondità,
che è un po’ come guardare la vetrina ma non visitare la cantina e non salire in soffitta e non frugare negli armadi e non rovistare nella credenza, che si siedono in tribuna o sul divano e non entrano nello spogliatoio o in palestra, che giudicano non per opinioni e idee in base a fatti ma lo fanno per pregiudizi e preconcetti in base soltanto a voci e pettegolezzi, che si fidano del sembrare e non si appassionano all’essere, che preferiscono il galleggiare piuttosto che l’immergersi, che sorseggiano e non tracannano mai, che magari ti imitano e ti copiano e ti prendono a modello ma senza sapere veramente perché e quando e quanto e che cosa e dove e chi e tutte quelle domande lì, perché a ventotto anni è anche ora di voltarsi indietro e non di guardare solo avanti, perché senza un po’ di passato non si costruisce e neanche si ipotizza e si sogna un po’ di futuro, perché Sasha abbia parole e racconti, cronache e storie, perché le parole volano, alzano e schiacciano ma poi rimangono…”.
Le parole sono rimaste in un libro, che si intitola “Mia” (e anche il titolo è tutto suo) ed è appena stato pubblicato dalla Rizzoli (288 pagine, 18 euro), io ci ho messo le domande e lui le risposte, io i dubbi e lui le certezze, io gli interrogativi e lui gli esclamativi, io le date e lui i set, io le virgole e lui i punti, i set, le partite, soprattutto le emozioni, le impressioni. Nel tinello, sul campo, in macchina, a tavola, sempre negli occhi. Un viaggio, sempre attraverso le parole, che è cominciato a Foligno, che ha attraversato l’ex Unione Sovietica, che è rimbalzato a Londra e a Rio de Janeiro, che ha esplorato Modena e Busto Arsizio, che ha respirato a Perugia, una storia di cinquantamila parole.
Ivan Zaytsev: come è diventato lo Zar, fra pallavolo e beach volley. “La pallavolo non è meno fisica del rugby, non è meno muscolare della pallanuoto, non è meno diretta del pugilato, non è meno bombarola e bombardiere del basket, non è meno intelligente della vela, non è meno geniale degli scacchi, non è meno di nessun altro sport, ma di più, molto di più, moltissimo di più, perché dentro c’è tutto, gambe e testa, cuore e fegato, polpastrelli e alluci, e poi responsabilità, coscienza, strategia, coraggio, e una voglia illimitata, bollente, focosa, cocente, incendiaria, perché ci siamo spaccati il culo fin da piccoli – grandi e piccoli, italiani e cubani, figli di e mogli di, naturalizzati e vitaminizzati, liberi e opposti – ed è un dovere dirlo, scriverlo, spiegarlo, difenderlo, il nostro amore e il nostro lavoro, e anche il nostro culo, s’intende, perché non siamo solo quelli di cui ci si ricorda una volta ogni quattro anni, perché fra mille battute magari ci scappa anche una battuta di spirito e lo spirito va tenuto sempre alto”.
Ma anche Ivan Zaytsev com’è, chi è, perché. Dentro e fuori, dentro e fuori di sé, dentro e fuori dal campo. “Non sopporto la fretta, non sopporto il disordine, un disordine disordinato, perché il disordine ordinato è okay, non sopporto la disorganizzazione, non sopporto quando gli altri ci mettono le mani e non mi trovo, non mi ritrovo, non mi ci ritrovo. Non sopporto i semi dell’uva. Non sopporto le zanzare, che saranno anche utili nell’ecosistema, ma allora è un ecosistema imperfetto, perché le zanzare sono davvero insopportabili, non dovevano neppure essere concepite. Non sopporto chi ciancica. Non sopporto le sigle, gli acronimi, le nuove terminologie. Non sopporto il rumore di chi mastica, mi manda letteralmente in bestia. Non sopporto i dossi stradali artificiali fatti per rallentare, e per violentare le sospensioni, quando si va in macchina. Non sopporto quelli che si allenano e giocano per professione e non per passione, e li riconosci immediatamente perché ci mettono meno cuore e meno gambe, perché vanno la metà della metà, non sopporto quelli che ti chiedono come va, o come stai, e se ti gli rispondi che è un periodo difficile per un qualsiasi motivo, loro concludono con un ‘basta che ti pagano’. Non sopporto chi è falso, chi racconta bugie, chi non si mette mai in discussione, chi non ha dubbi ma solo infinite certezze, chi ha la memoria corta, chi pecca di ingratitudine anche quando, un giorno, una partita, stai sotto un treno. Non sopporto chi non fa la fila, ma devo precisare che quando ci sono io la rispettano, oppure sono io a farli passare avanti. Non sopporto il bordello in macchina, buste scontrini bottigliette lattine, abbandonate, sparse… Non sopporto gli opportunisti e i figli di papà, tant’è vero che non sopporto usare il mio cognome per prenotare una cena esclusiva in un ristorante di alto livello, perché non sopporto avere corsie preferenziali. Non sopporto montare i mobili. E, soprattutto, non sopporto buttare via il cibo. Ah, stavo dimenticando: non sopporto la parola ‘volley’, preferisco di gran lunga ‘pallavolo’. Però. Però mi piace da matti mangiare, bere e fare l’amore, preferibilmente in questo ordine cronologico”.
Per me, “Mia” è stato un privilegio raro, fra scoperte e rivelazioni. Per lui, non lo so, forse una missione, uno sfogo, una terapia, una liberazione, una conferma, cinque set, quattro cambi di campo e il terzo tempo. Certo: Ivan schiaccia non solo a manate, ma anche a parole.
Marco Pastonesi