Ciò che era rivoluzionario vent’anni fa, oggi non può che essere la normalità: parola del “The Athletic”. “It is not the strongest of the species that survives, nor the most intelligent, but the one most responsive to change” – amava ripetere nei suoi diari Charles Darwin e il calcio, proprio come un organismo vivente, non può che rispettare questa legge.
Vent’anni fa, tattiche innovative come quelle di José Mourinho e Rafa Benitez erano rivoluzionarie, ma oggi sono diventate la norma. Gli allenatori moderni devono costantemente evolversi e sviluppare nuove strategie per restare al passo in un ambiente altamente competitivo, dove ciò che era eccezionale in passato è ormai il requisito minimo per eccellere. Il calcio, checché ne dica Alberto Malesani, è sempre stato una giungla, inclusa la nostra spesso “reazionaria” Serie A.
Per Vujadin Boskov, il pallone segue una legge ineluttabile: i giocatori trionfano, gli allenatori perdono. Eppure, non può esserci storia del calcio senza tattica e senza strateghi, ossia coloro che siedono in panchina. Parallelamente alle epopee d’oltremanica di Mou, Benitez e compagnia, la nostra Serie A si è progressivamente lasciata alle spalle l’avanguardia sacchiana anni ’90, ha conosciuto la grande depressione post Berlino 2006 e una parziale, timida ripresa attraverso modi di intendere calcio più aggressivi e meno speculativi. Una composizione ad anello costantemente sullo scomodo crinale che può condurre al successo ma, alle volte, anche ad una valanga di fallimenti.
Carlo Ancelotti, Bringing It All Back Home
Quando nel novembre 2oo1, Carlo Ancelotti approda sulla panchina del Milan si assiste all’incontro di due malinconie: quella di un Milan reduce da due stagioni di grandi investimenti, Sheva su tutti, tre guide tecniche differenti e piazzamenti mediocri; e quella dell’eterno secondo Carletto, del perdente di lusso, etichetta che al tecnico di Reggiolo è stata appiccicata da un popolo juventino scottato, oltre che da i soliti noti problemi di performance nelle coppe europee, anche da due secondi posti consecutivi in campionato. Carlo Ancelotti: raffazzonata imitazione di Sacchi o allenatore in grado di una proposta di calcio originale?
Il percorso al Milan segna una rottura definitiva tra due mondi e modi di allenare. Esiste un Ancelotti dogmatico e poco propenso ad adattarsi alle caratteristiche dei giocatori, all’ambiente, e un Carletto flessibile, comprensivo, darwinianamente versatile. Per Bob Dylan Bringing It All Back Home è il passaggio dalla chitarra acustica a quella elettrica. Per Ancelotti allenare il Milan è, oltre che uno di quei romantici ritorni a casa tanto graditi da quel sentimentale di Adriano Galliani, il passaggio dall’ortodossia sacchiana a tattiche più proteiformi. Le caratteristiche dei giocatori a disposizione dovranno sempre prevalere rispetto alla tattica e ai principi di gioco. L’inizio è nel segno del 4-4-2, con Gattuso e Albertini a coprire il centrocampo, Pirlo riserva e Rui Costa spesso ai box per infortunio. Ancelotti passa poi l’estate 2002 a provare moduli nei quali far coesistere non solo il fantasista ex viola ma anche Rivaldo e Seedorf, i regali estivi del Cavaliere.
La passerella agostana del Milan al Trofeo Berlusconi con Pirlo – Seedorf – Rivaldo in campo contemporaneamente dal primo minuto non dispiace al tecnico di Reggiolo, che ripropone il tris di fantasisti, per l’occasione Rui Costa sostituisce Rivaldo, nella gara contro lo Slovan Liberec. Una sconfitta indolore ma la società avverte la necessità di maggior equilibrio. Arriva dalla Lazio Nesta, abile nel difendere in spazi ampi e in inferiorità numerica. La linea di difesa a 4 deve, infatti, avere più solidità possibile. Nel frattempo, Pirlo arretra nel ruolo di regista, posizione che il bresciano aveva ricoperto con Mazzone nel Brescia 2000-01, Gattuso a destra e Seedorf a sinistra fanno poi il resto. Complice l’infortunio di Sheva, Ancelotti passa poi ad una sola punta, Inzaghi, e può finalmente schierare tutti gli uomini di fantasia dal primo minuto.
Contro il Deportivo la Coruña nasce il famoso “albero di Natale”, 4-3-2-1, con i due trequartisti, Rivaldo e Rui Costa, a schermare le fonti di gioco avversarie e Seedorf, Pirlo e Gattuso a compensare gli squilibri a centrocampo. In fase di non possesso, invece, il Milan si dispone secondo un 4-4-2. Un espediente per garantire una buona copertura di campo e chiudere potenziali voragini sulle fasce, troppa infatti la distanza tra la mezzala e il terzino avversario.
Il ritorno di Sheva garantirà poi la possibilità di alternare l’albero di Natale col modulo a due punte, schieramento più verticale e meno adatto al controllo dei ritmi. L’arrivo di Kakà, poi, porterà a ripiegare maggiormente sul modulo a due punte, complice anche una fase difensiva ulteriormente irrobustita dagli innesti di Stam, col conseguente spostamento di Maldini nel ruolo di terzino sinistro, e dall’approdo in rossonero di Crespo, supportato da Kakà e chiamato a fare coppia con Sheva.
Con Ancelotti il calcio ha abbandonato ogni rigidità.
Giampiero Gasperini, Whatever It Takes
Il vascello pirata atalantino di un noto spot di servizio streaming per eventi sportivi fotografa efficacemente lo spirito che i bergamaschi hanno avuto fin dal primo giorno di insediamento di Gasperini a Zingonia. Il mare va attraversato senza paura a qualunque costo. Calcio aggressivo, ritmi elevati sia in fase di possesso che non. La difesa in casa nerazzurra ha come unico riferimento l’avversario e come si comporta in campo. La retroguardia non si muove mai all’unisono. L’Atalanta difende in avanti non solo perché sviluppa fasi di ri-aggressione una volta persa la palla; ma anche perché si prova sempre l’anticipo sulla ricezione dell’avversario.
Un anticipo sbagliato, ovviamente, può risultare pericoloso. Ecco, perché, Gasp vuole sempre avere superiorità numerica nella porzione centrale di difesa: un uomo in più rispetto al numero di attaccanti avversari, un difensore senza marcatura di riferimento, pronto a tappare falle impreviste nella carena e ad uscire anche oltre la metà campo sul giocatore rivale lasciato libero. Una scelta che il tecnico di Grugliasco adatta di partita in partita e che può comportare anche effetti collaterali, leggasi praterie sterminate per gli avversari a causa di errate letture difensive.
I difensori dell’Atalanta sono posizionati spesso sulla trequarti avversaria anche in fase offensiva. Si gioca sugli anticipi e si imposta immediatamente un’azione d’attacco. Azione che deve coinvolgere i difensori, sfruttando la superiorità numerica in fase di finalizzazione. Ai difensori è anche affidata la rottura della pressione avversaria con conduzione palla al piede e passaggio al compagno libero una volta bloccati da un rivale. Situazione di gioco mandata a memoria e molto evidente nel gol segnato al Genoa alla terzultima di campionato 2018-19.
Una compagine intesa, aggressiva. Una squadra con un’identità ben definita, capace, però, di adattarsi per accomodare il talento dei suoi assi migliori: Gomez e Ilicic solo per citarne due. Si attacca sempre in superiorità numerica grazie agli esterni e, come detto qualche riga sopra, anche sui difensori centrali. I nerazzurri interpretano dei compiti non dei ruoli.
“Ci sono due tipi di squadre: quelle che aspettano e quelle che aggrediscono. Io amo le seconde. Per aggredire alto serve abitudine, mentalità, velocità, forza fisica”.
Salpare dalle lande desolate della lotta salvezza, un diciassettesimo e un tredicesimo posto nei due anni precedenti l’avvento di Gasperini, e approdare al trionfo europeo di Dublino 2024, a due finali di Coppa Italia o ai quarti di finale di CL contro il PSG nel 2020. “High risk, high reward”. E pensare che dopo 4 sconfitte nelle prime 5 partite della stagione 2016-17, la prima alla guida dell’Atalanta, il Gasp era ad un passo dall’esonero…
Roberto De Zerbi, Learning to Fly
Un’alchimista, un ingegnere genetico, un creatore di ibridi. De Zerbi è riuscito nella transizione tra due stili di gioco diversi. Da un calcio meccanico, quello di Di Francesco, ad uno fondato sulla circolazione del pallone per creare spazi. Non importano le difficoltà incontrate lungo il percorso, anzi; quelle non hanno fatto altro che rafforzare le sue convinzioni. Studioso del Bayern di Guardiola nella sua versione più glamour, la sua prima esperienza da professionista è sulla panchina del Foggia (2014-2016). Sulla Lega Pro sembra planare d’un tratto la Millenium Falcon di Star Wars. Il meglio della scuola catalana sui campi polverosi e accidentati della provincia italiana. Il portiere imposta come un libero, si difende in avanti, si riaggredisce una volta persa la palla.
Al secondo anno, De Zerbi mette in bacheca la Coppa Italia di Lega Pro e ottiene un secondo posto in campionato, soccombendo poi in finale playoff. In Italia nessuno è in grado di utilizzare principi e strumenti del gioco di posizione in modo così netto. Dopo l’apoteosi pugliese, De Zerbi si esibisce in un triplo salto carpiato e passa ambiziosamente dalla Lega Pro alla serie A: ad attenderlo la panchina del Palermo di Zamparini. Inutile dire che l’esperienza non sarà altro che deleteria per il tecnico bresciano. Nove sconfitte in tredici incontri significano, ineluttabilmente, esonero.
Nella stagione seguente ecco una nuova opportunità nella massima serie: la matricola Benevento. De Zerbi subentra a stagione in corso, scenario peggiore per un allenatore che cerca di trasmettere principi di gioco non comuni nel nostro campionato. Le Streghe tagliano il traguardo da mesto fanalino di coda, ma ciò al posto di essere un fallimento si tramuta in un palcoscenico: l’ex allenatore dei Satanelli riesce a trasformare i giallorossi campani in una squadra propositiva, ottenendo anche grandi soddisfazioni come la storica vittoria al Meazza contro il Milan (0-1, rete di Pietro Iemmello).
De Zerbi manda quindi in cortocircuito un luogo comune dei salotti del nostro pallone: il calcio basato su principi posizionali e sul controllo del pallone non deve per forza di cose avvalersi di giocatori dalla tecnica sopraffina. A contare sono le idee, che devono essere buone, la capacità di trasferirle ai giocatori a disposizione, le metodologie di allenamento e la resa sul campo.
“Per me il risultato non è importante, è importante come arrivo al risultato. Se vinco per caso non mi interessa”.
Ecco il manifesto programmatico del calcio d’avanguardia di Roberto De Zerbi. E, intanto, l’opinione pubblica risultatista è sempre più insofferente. I risultati per l’attuale tecnico dell’OM sono frutto di creazione del valore e di una ricerca di identità.
Il Sassuolo di De Zerbi applicava, infatti, principi ben definiti: giocatori posizionati in tutti i corridoi del campo, mantenendo le giuste distanze tra i reparti. Si crea così ampiezza e si dilatano gli spazi anche nelle linee avversarie. A inizio azione, spesso eseguita a ritmi lenti, ogni giocatore può occupare una posizione diversa se ciò favorisce la progressione della sfera. Al terzo anno sulla panchina emiliana, De Zerbi ha portato il Sassuolo ad essere la squadra di serie A con la più alta percentuale di possesso palla (poco oltre il 60%). I neroverdi muovono spesso il pallone in ampiezza per scompaginare le posizioni avversarie e concentrano giocatori in una certa zona del campo per liberare un uomo in 1vs1 in un’altra porzione di rettangolo di gioco. Ossessiva la ricerca dell’uomo oltre la linea di pressione avversaria e, se necessario, è previsto ricominciare la circolazione palla dalle retrovie per stanare l’avversario dalla propria metà campo. Il calcio di De Zerbi è sia verticale che orizzontale, sia ritmato che pausato. Un calcio contraddittorio, ossimorico.
Ogni passaggio nel calcio di De Zerbi ha un valore intrinseco, ogni errore, però, può determinare gravi conseguenze. Il controllo del pallone è l’arma migliore per una squadra, il Sassuolo, che soffre soprattutto le transizioni difensive. Uno scorretto posizionamento in fase di costruzione non può che comportare difficoltà serie nell’attivazione del gegenpressing una volta perso il possesso della palla. Una formazione che si schiera così alta in campo ha poi bisogno di cure maniacali per quanto concerne le marcature preventive. Il livello di applicazione richiesto ai calciatori è altissimo e possibile, probabilmente, solo in una piazza tranquilla come quella emiliana. Un errore in più al Mapei Stadium non desta una pioggia di mugugni.
Complessità è mescolanza, dunque. Il calcio come recita a soggetto, improvvisazione “pianificata” perenne. E l’Italia dimostra di non essere insensibile al vento del cambiamento. Un calcio italiano più ricco e attraente dal punto di vista di diritti TV e affini potrebbe davvero ritornare a dominare la scena internazionale. E chissà tra vent’anni che cosa penseremo osservando chi ha vestito i panni del pioniere…