Simone Fontecchio, azzurro che ha appena compiuto 22 anni, aveva giocato solo 30’ complessivi in serie A, realizzando 5 punti nelle nove partite disputate in serie A con Milano (in Eurolega è stato quasi sempre in tribuna, giocando meno di 2 minuti). Prestato a Cremona per evidente incapacità dell’Olimpia di trovargli uno spazio in campo, ha debuttato nella bella vittoria contro Avellino realizzando 15 punti in 22’. Bella forza… Simone è un ragazzo che a 19 anni stava in campo 27’ di media alla Virtus Bologna segnando una decina di punti a partita. Inutile discutere se sia colpa di Milano o delle qualità del giocatore se, di fatto, uno dei prospetti più interessanti della nostra pallacanestro abbia buttato via una stagione e mezzo fondamentale per la sua crescita.bIn Italia succede quasi sempre così, a Milano con Awudu Abass, nonostante come Fontecchio abbia dimostrato in Nazionale di poter recitare un ruolo importante pur giocando pochissimo nell’Olimpia. Se considerate la storia dei nostri giocatori, c’è sempre un momento in cui vengono dimenticati e si fermano proprio nel momento cruciale della loro vita cestistica. E’ la differenza tra quello che accadeva fino agli anni Novanta e oggi. La precarietà del posto non è limitata solo al mondo del lavoro.
Il problema, come al solito, è che di fronte a situazioni come a quelle di Fontecchio, i commenti sono quasi sempre superficiali. C’è il classico “visto che italiani bravi, se si fanno giocare, ci sono” che non tiene conto del fatto che la serie A come livello è nettamente inferiore all’Eurolega a cui punta Milano (e potremmo dire lo stesso anche della Nazionale, in questa versione senza stelle che piace tanto alla Fiba) fino al più canonico “Il basket italiano è in crisi perché stranieri mediocri rubano il posto ai nostri giocatori”, cosa che in assoluto non è vero sia perché gli stranieri non sono tutti mediocri, anzi, è anche per il fatto che parliamo di un numero ristretto di nostri giocatori che hanno i numeri per giocare in prospettiva a livello internazionale: basterebbe sviluppare questi. Il problema è completamente nelle mani e nella sensibilità dei club, dei dirigenti e degli allenatori. Fare razzia di italiani di livello per poi non farli giocare è stato un errore di Milano che avrà conseguenze pesanti sul nostro movimento. Ma non è che altrove la crescita dei nostri giocatori venga garantita con continuità. Di certo, quello di cui il basket italiano non ha bisogno è di nuove regole restrittive spinte da Coni e Fip sul numero degli stranieri né di proposte come la luxury tax fatta dai club, che chiedono di pagare una imposta per ogni extracomunitario eccedenti i 5 per squadra. Fondamentalmente, più uno è ricco (e forte) più può permettersi di pescare all’estero. Mi sembra una fesseria in termini non solo di formazione dei nostri giocatori ma, anche, di equità competitiva.
Ogni volta che guardo la Nba non posso non pensare al perché il campionato più bello, forte, ricco del mondo questo problema non ce l’ha. L’altra sera assistevo a Lakers-Philadelphia dove, stante l’assenza della prima scelta assoluta di quest’anno Markelle Fultz infortunato, erano in campo Lonzo Ball e lo strepitoso (per me) Brandon Ingram tutti e due classe 1997, Kyle Kuzma (1995, la stessa annata di Fontecchio) da una parte, e Ben Simmons (1996), attorniato da 23enni come Joel Embiid e Dario Saric (inattivo per una gara, stavolta). Molte squadre nella Nba sono giovanissime. Nei primi 15 realizzatori della lega, troviamo Yannins Antetokounmpo, 1994, Kristaps Porzingis (1995), Devin Booker (1996), Joel Embiid (1994) mentre da noi quelli sotto i 23 anni fanno fatica addirittura a giocare. Basta una mano per contare chi riesce a stare in campo con continuità: Spissu, Flaccadori, Mussini, Candi. Vero che Amedeo Della Valle (1993) è quinto nella classifica realizzatori e Alessandro Gentile (1992) quarto, ma considerare ancora giovani giocatori di questa età e chilometraggio è uno dei motivi per cui questi atleti sembra non crescano mai.
Facile, direte voi, far giocare i ragazzi senza la retrocessione, come avviene nella Nba. Dove alcune franchigie accettano di starsene nei quartieri bassi per anni pur di sviluppare il potenziale che hanno conquistato nelle scelte. Facile, anche, perché molti dei ragazzi di cui stiamo parlando sono dei fenomeni assoluti. Ragionando, è facile capire che tenere in attivo e vive franchigie da milioni di dollari senza vincere sia molto più difficile che fare due punti in più dell’ultima in classifica in serie A. Ma abolire la retrocessione in serie A resta un discorso molto spinoso, non solo perché avrebbe senso soltanto a fronte di garanzie economiche elevatissime, impianti capienti e moderni e forti investimenti nei vivai che i nostri club non concepiscono. La retrocessione, o meglio la lotta per non retrocedere, viene considerato il sale per molti nostri appassionati e politicamente non passerà mai in nome del diritto sportivo. In realtà, la non retrocessione all’italiana, sarebbe presa come la possibilità da parte di società più sgangherate e senza progettualità di spendere ancora meno presentando formazioni improponibili, magari svendendo i migliori a stagione in corso in una sorta di tanking naturale per la nostra indole di essere sempre più furbi degli altri. Ma varrebbe la pena di pensarci: giocano in A le squadre che danno le maggiori garanzie anche di produrre e far giocare i nostri giocatori. Sogni probabilmente.
Lonzo Ball, dei Lakers, è secondo me l’emblema di questo discorso. Ha compiuto 20 anni in ottobre, è un ragazzo quieto nonostante un padre, LaVar, che ha costretto o Lakers a proibire ai giornalisti di frequentare e parlare con i familiari dei giocatori (ma il babbo usa i social e se ne frega) per evitare le sue sparate. Lonzo si fa voler bene perché è un talento negli assist, va a rimbalzo nonostante sia un playmaker, ma in attacco è un disastro sotto il 30% nel tiro complessivo (e non arriva al 50% ai liberi). Sta in campo 33’ di media perché i Lakers hanno intravisto in lui qualcosa di importante: secondo me, in questo momento, non vale assolutamente un posto in starting five in una qualsiasi squadra Nba. Soprattutto, non vale la pena di sopportare le noiose teorie del padre (l’ultima, che Walton non sia l’allenatore giusto per i giovani Lakers, ma anche che suo figlio è più forte di Steph Curry etc etc). Parametrato all’Italia, Lonzo farebbe la fine di un Abass a Milano… Vedremo come lui e le decine di under 22 che hanno spazio nella Nba cresceranno rispetto ai nostri.
Lonzo Ball, dei Lakers, è secondo me l’emblema di questo discorso. Ha compiuto 20 anni in ottobre, è un ragazzo quieto nonostante un padre, LaVar, che ha costretto o Lakers a proibire ai giornalisti di frequentare e parlare con i familiari dei giocatori (ma il babbo usa i social e se ne frega) per evitare le sue sparate. Lonzo si fa voler bene perché è un talento negli assist, va a rimbalzo nonostante sia un playmaker, ma in attacco è un disastro sotto il 30% nel tiro complessivo (e non arriva al 50% ai liberi). Sta in campo 33’ di media perché i Lakers hanno intravisto in lui qualcosa di importante: secondo me, in questo momento, non vale assolutamente un posto in starting five in una qualsiasi squadra Nba. Soprattutto, non vale la pena di sopportare le noiose teorie del padre (l’ultima, che Walton non sia l’allenatore giusto per i giovani Lakers, ma anche che suo figlio è più forte di Steph Curry etc etc). Parametrato all’Italia, Lonzo farebbe la fine di un Abass a Milano… Vedremo come lui e le decine di under 22 che hanno spazio nella Nba cresceranno rispetto ai nostri. Intanto, in Europa sono arrivati i fratelli di Lonzo, LiAngelo, 19 anni, sospeso da Ucla nel suo anno da freshman per aver rubato in un supermercato durante la tournée cinese dell’università californiana, e LaMelo, nato nel 2001, ancora all’high school. Tutti e due sono stati costretti dal padre a lasciare le loro scuole diventando di fatto professionisti. Per un po’ ho temuto che qualche squadra italiana in cerca di pubblicità potesse ingaggiare la coppia salvo poi lamentarsi degli stranieri mediocri (i Ball sono bambini…). Ce li hanno “rubati” i lituani del Prienu Vyatutas. In fondo è un peccato: papà LaVar avrebbe rivalutato tutti i genitori dei nostri giocatori spesso considerati, a torto o a ragione, troppo ingombranti.
Luca Chiabotti
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