La Giovanna d’Arco dello Sport, al secolo Amelie Mauresmo, è molto più socievole della Pulzella d’Orléans, ma è ugualmente travagliata e complicata.
Nata il 5 luglio del 1979 nella piccola Saint-Germain-en-Laye, vicino Parigi, a 4 anni è rimasta fulminata davanti alla tv guardando Yannick Noah che vinceva il Roland Garros ed ha imbracciato una racchetta da tennis, a 16 ha conquistato Roland Garros e Wimbledon juniores incantando il mondo con tocchi melliflui e repentine discese a rete e chiudendo la stagione da numero 1 di categoria, a 18 è entrata in nazionale di Fed Cup chiamata da capitan Noah, il suo idolo, a 19 si fece battere psicologicamente prima ancora della finale dall’avversaria, Martina Hingis, schiacciata da un’unica frase: “Guardate, quanti muscoli, è un mezzo-uomo, ha anche la fidanzata…”.
Reagì, attaccando: “Amo Sylvie e sono felice”. Sbandierando in mondovisione un outing che, nel tennis, fra tantissimi, sofferti, silenzi avevano osato solo due personalità imponenti come Billie Jean King e Martina Navratilova. Uno choc: “Fu dura, molto dura. Non l’ho mai rimpianto, ma avrei potuto farlo in modo più soft. Non mi sarei mai immaginato l’impatto che avrebbe avuto. Tutti gli occhi erano su di me, e mi ha causato delle questioni familiari che non sono state facili da gestire”.
Oltre agli sponsor anche il padre le chiuse le porte in faccia fin quasi in punto di morte, nel 2013. Amelie sembrò eclissarsi, poi, nel 2004, riesplose con la semifinale di Wimbledon mezza-vinta contro Serena Williams, il bronzo olimpico, battendo Justine Henin, l’ascesa al numero 1 del mondo, nel 2005 firmò il Masters e nel 2006 si aggiudicò il primo Slam, agli Australian Open, però solo con mezzo sorriso perché sia Clijsters che Henin si ritirarono per problemi fisici, con la francese nettamente in vantaggio.
Ma si prese ampiamente la rivincita conquistando Wimbledon, eguagliando la mitica Suzanne Lenglen. Per di più giocando prevalentemente servizio-volée, una mosca bianca fra le monotone picchiatrici da fondo. Proprio come il suo amico Noah dopo il Roland Garros 1983, anche la Mauresmo staccò la spina dal tennis, la riattaccò, senza però più ritrovare quel livello di intensità e quei risultati. Dedicandosi al capitanato di Fed Cup, quindi al ruolo di coach, nel 2010, di Michael Lodra, nel 2012 di Vika Azarenka, nel 2013 di Marion Bartoli e nel 2014-2016 di Andy Murray, il suo cliente più famoso e femminista.
Che l’ha sempre difesa dai media britannici quando i risultati non arrivavano, e che l’ha attesa quando Amelie è rimasta incinta di un anonimo donatore, fierissima, mamma gay. Ora non contenta del primato di donna che allena colleghi uomini di primo livello, fa ancora scalpore con le sue scelte: il suo idolo Noah le ha passato il testimone di capitano di coppa Davis e lei, dopo il primo sì, ha rifiutato, per lanciare una sfida anche maggiore, rilanciare il giovane più credibile di Francia, il 24enne Lucas Pouille, già pupillo proprio di Noah, ma reduce da un’annataccia.
Che ha twittato: “Sono ben felice di avere Amelie Mauresmo come coach. Ha l’esperienza e le capacità per aiutarmi a centrare i miei obiettivi. Sono sicuro che ci attendono grandi cose”. Che è successo, Amelie? Lei, sempre sincera, diretta, onesta, ha spiegato: “Avevo dei dubbi su che cosa volessi fare veramente e su che cosa mi facesse vibrare di più. Ho riflettuto molto sul nuovo formato di Coppa, che non mi soddisfa. A ottobre, avevo comunque optato per la nazionale, quando Lucas (Pouille) m’ha sollecitata, anche se i giocatori che ho interpellato mi hanno dato via libera sulla eventualità di tenere il doppio incarico, sono arrivata alla conclusione che non era realistico: sarebbero comunque sopraggiunte delle tensioni.
È stato molto difficile scegliere: Luca ha fatto un discorso che mi è piaciuto e io ho sempre reagito meglio, come sensazioni, davanti alle sfide”. Da Giovanna d’Arco dello sport.