Togliamocelo subito dalla testa: il Masters (oggi tristemente ribattezzato ATP Finals) non cambierà mai formula. La causa che ha scatenato le polemiche sul possibile biscotto tra Sinner e Rune per eliminare insieme Djokovic resterà per sempre. Il giorno in cui la formula dovesse cambiare (e non cambierà), tornando all’agognata eliminazione diretta, ci ritroveremmo un minitorneo, nel quale il vincitore per diventare Maestro dovrà vincere tre partite tre (quarto di finale, semifinale e finale). Un torneo che si svolgerebbe nello spazio di un week-end e che ai tifosi non basterà, proprio perché ci sono solo 4 partite il venerdì (i quarti di finale), 2 il sabato (le semifinali) e 1 la domenica (la finale). Vale a dire 7 partite al posto delle attuali 15 (6 match in ognuno dei due gironi da 4 giocatori più semifinali e finale). Anche lasciando da parte gli sponsor (i primi e forse unici promotori della formula attuale, ma anche quelli che hanno il coltello dalla parte del manico) gli spettatori si chiederebbero: “Ma come, con tutto il ben di Dio di giocatori che scendono in campo, dobbiamo accontentarci di uno striminzito week-end?”
Non pensiamoci più, semmai interroghiamoci sui biscotti passati, sul dualismo tra nobile sportività e cinica opportunità, perché il confine tra buoni e cattivi non è così demarcato come sembra.
Giocare per perdere è il contrario dell’essenza dello sport. Certo, sacrosanto. Ma se dicessimo “giocare per perdere è il contrario dell’essenza dello sport professionistico“, saremmo altrettanto sicuri – fuori da qualunque moralismo – di affermare “certo, sacrosanto”? Si contrappongono due filosofie, la prima cinica e spietata, incarna perfettamente l’atleta professionista a 360 gradi. Più vinco più guadagno e più ho possibilità di salire la classifica, in modo da avere sorteggi più favorevoli prima di ogni torneo. Allo scopo di vincere ancora e ancora. Se elimino col biscotto un avversario fortissimo, peggio per lui, la prossima volta non si farà ritrovare in questa situazione.
La seconda filosofia deve e vuole cercare di vincere ogni match o gara cui prende parte, per onorare sempre lo spirito sportivo, come poteva essere Gilles Villeneuve. Ogni gara va vinta, poco importa se una guida temeraria espone a incidenti e ritiri. Nessuno sguardo alla classifica generale, ma alla vittoria del prossimo Gran Premio o del prossimo match, anche se può significare rimettere in piedi l’avversario più ostico (magari il più ostico di tutti, come Novak Djokovic). Dopo la sconfitta di Jannik contro il n.1 del mondo, però, non sono stati pochi a pensare: “Ok, ha vinto nettamente Djokovic. La prossima volta, se c’è la possibilità di eliminarlo, lo si elimina!”
Ora, Jannik Sinner incarna il modello di professionista a 360 gradi, che non si fa problemi a rinunciare alla convocazione in Coppia Davis (a Bologna a settembre) se deve recuperare la condizione migliore e addirittura alle Olimpiadi, viste poco più di un intralcio nella preparazione tra un torneo e l’altro. Però fa parte dei buoni perché contro Rune l’azzurro ha rifiutato l’ipotesi di sconfitta e la possibilità del biscotto.
GLI ESEMPI PASSATI DEL TENNIS
“Ma certo che Sinner ha vinto anche se poteva perdere, è tennis, non è mica il calcio”. Invece anche il tennis è pieno di cattivi che hanno sfruttato alla grande l’anomalia dei round-robin, eliminando indirettamente gli avversari più ostici. Su tutti, Ivan Lendl, che nel 1980, essendosi nell’altro gruppo classificato secondo nientemeno che Bjorn Borg, perse di proposito per evitare di arrivare primo e quindi di sfidare in semifinale il campione svedese. Si ritrovò così in semifinale Gene Mayer, che sconfisse prima di perdere la finale da Borg. Insomma, furbo, cinico e cattivo.
IL CALCIO
L’Italia che giusto due anni dopo si sarebbe laureata campione del mondo a Berlino, agli Europei 2004 in Portogallo, dopo due pareggi deludenti contro Danimarca e Svezia, era nelle mani delle due nazionali nordiche. Oltre a battere la modesta Bulgaria, all’Italia serviva un risultato diverso da un pareggio con due o più gol per parte in Svezia-Danimarca. Un pareggio per 2-2 avrebbe eliminato gli azzurri, qualificando a braccetto entrambe le nazionali del Mare del Nord. Puntualmente, andò proprio così: la “combinata nordica” ci estromise dal torneo, nonostante la vittoria all’ultimo minuto sulla Bulgaria. Ci si aspettava maggiore sportività da due nazioni che brillano nel sociale e nel rispetto dei diritti, ma evidentemente tutto il mondo è paese. Svedesi e danesi entrano in pompa magna fra i cattivi.
IL RUGBY
Con la palla ovale, l’Italia non ha mai avuto grande fortuna. Al di là del Sei Nazioni, l’obiettivo di un intero quadriennio è la Coppa del Mondo, dove abbiamo sempre mancato il nostro obiettivo, la qualificazione ai quarti di finale e l’accesso nei primi otto del mondo. Il tardivo ingresso del rugby nel professionismo (1995) ha a lungo facilitato rituali e nobili comportamenti tipici del dilettantismo, come il Terzo Tempo [LINK] dopo il match, ma anche la ferrea convinzione che ogni partita vada giocata al massimo con l’obiettivo di vincere. In questa ottica, se una squadra non ha più nulla chiedere al torneo nella fase a gironi, perché già qualificata o già eliminata, ha comunque il dovere di schierare i giocatori migliori per esprimersi al massimo.
Proprio per questo, ai Mondiali australiani del 2003 la scelta dell’allenatore azzurro dell’epoca John Kirwan di escludere i migliori titolari contro la Nuova Zelanda per preservarli alle partite successive fece scalpore. Le critiche furono feroci con pochissimi osservatori (nessuno della stampa estera) dalla parte dell’Italia. La stessa Italia che, nel qualificarsi alla Coppa del Mondo del 1991 in Inghilterra, preferì vincere il girone di qualificazione, seguendo i codici della sportività rugbistica, piuttosto che arrivare volutamente seconda con una sconfitta nell’ultima sfida pre Mondiali. A Padova contro la Romania, infatti, la vittoria per 29-22 significava primo posto e accesso al gruppo monstre con All Blacks e Inghilterra, quando arrivando secondi ci sarebbero toccate Francia, Fiji e Canada, con molte più possibilità di arrivare ai quarti.
Ci sono quindi state un’Italia cattiva e calcolatrice – quella del 2003 – e un’Italia buona e onorevole nel 1987, che pagò con la fine prematura del suo torneo il rispetto per la tradizione.
Insomma, non sempre i presunti buoni rifiutano l’ingresso – ma solo per un istante – nel perfido girone dei cattivi, ma anche i cosiddetti cattivi si possono ritrovare in altre situazioni a fare i buoni. Beati i cattivi che saranno buoni. E i buoni, cattivi