“A Berlino che giorno è?” – si domanda Renato Abate, in arte Garbo, all’inizio degli anni Ottanta, un periodo in cui la musica italiana si fa tante domande e prova a dare qualche risposta, ispirandosi proprio a chi nella Capitale tedesca aveva inciso un’intera trilogia; vale a dire David Bowie. E così nasce la “New Wave” italiana: non solo Garbo ma anche i Faust’O, i Diaframma e un giovane promettente, Enrico Ruggeri. E a Berlino il calendario recita 6 marzo 1983, una domenica. Nella Germania occidentale i tedeschi votano per il rinnovo del Bundestag, il parlamento: Berlino è ancora divisa da quel muro che “non ha freddo qui” parafrasando Garbo. E quel muro ci sarà per altri sei anni abbondanti. Ci sono anche gli euromissili a medio raggio con armamento nucleare dislocati da URSS e USA sul territorio europeo. C’è in generale una sensazione di insicurezza, un po’ carsica e un po’ magmatica, una certa precarietà che fa da sfondo a un appuntamento a cui guarda il mondo intero.
Sono elezioni anticipate, un evento più unico che raro nella terra di Goethe. Era già successo una sola volta, nel 1972, un dato che stride con la realtà italiana, dove i governi si materializzano e spariscono come i fantasmi di quel film, Ghostbusters, che uscirà qualche mese più tardi sugli schermi di tutto il mondo “libero”. Gli spettatori maggiormente interessati sono gli «altri» tedeschi, quelli dell’Est, pure loro percorsi da un’inquietudine che a quelle latitudini non si era mai percepita. Scrive Piero Benetazzo su Repubblica:
«Nella DDR si assiste alla nascita di un movimento per la pace che si nutre di parole e slogan tipici della parte occidentale. A Honecker sembra essere sfuggito il controllo dei suoi strumenti di magia. Per la prima volta si affaccia un fenomeno di dissenso che sembrava relegato nel contraddittorio mondo occidentale. Si muove tallonando le ambiguità e le incertezze del regime a profilare una vera e propria seconda opinione pubblica».
A Est prendono appunti, a Ovest votano. Vince, anzi, stravince, la coalizione formata dai cristiano-democratici di Helmut Kohl e dai cristiano-sociali del bavarese Franz Josef Strauss. Più ancora del 48,8 per cento dei voti impressionano i dieci punti di vantaggio sui rivali socialdemocratici, un margine maggiore addirittura di quello del 1957, quando Adenauer conquistò la maggioranza assoluta. L’analisi di Pietro Sormani sulle colonne del Corriere della Sera:
“Di fronte alle incertezze dell’equidistanza tra i due blocchi, ipotizzata da un governo socialdemocratico, i tedeschi hanno preferito le certezze derivanti dall’appartenenza alla NATO, anche se essa comporta il rischio dell’installazione di nuovi missili nucleari. È stata, quella di domenica, una scelta di campo”.
Lutz Eigendorf alle urne non sarebbe andato, lui per la politica non ha mai mostrato interesse, entusiasmo. Di professione fa il calciatore, ha sempre avuto altro per la testa. Ha vissuto i primi ventitré anni della sua vita a Berlino Est, dove le elezioni nell’accezione «occidentale» del termine sono come i dodo, il diavolo della Tasmania o il quagga: “estinte”. La politica nella DDR “è semplice” parafrasando Massimiliano Allegri. La matita non ha l’imbarazzo della scelta riguardo a quale logo di partito barrare nel segreto della cabina elettorale. Da quattro anni, Lutz ha rotto con il passato ed è fuggito all’Ovest, voltando le spalle al regime di Erich Honecker, il temuto capo di Stato della Repubblica Democratica Tedesca, la Germania dell’Est.
C’è un altro motivo, però, che avrebbe tagliato fuori Eigendorf dall’appuntamento elettorale. In quel 6 marzo il ragazzo è ricoverato in coma nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Braunschweig. La sera prima, alle 23.08, è uscito di strada con la sua Alfetta blu petrolio in prossimità di una curva andando a schiantarsi contro un albero. «Lesioni gravissime alla testa e al torace», recita la diagnosi dei medici. Il suo cuore smetterà di battere per sempre alle 9.15 di lunedì 7. Sulla base degli elementi raccolti dalla polizia e trasmessi alla magistratura, il giocatore al momento dell’incidente era ubriaco fradicio. Nel suo sangue è stato riscontrato un tasso alcolemico di 2,2: come se avesse bevuto quattro litri e mezzo di birra o due litri abbondanti di vino. Inutile indagare oltre. Niente autopsia, niente esame approfondito sui resti dell’automobile. Eigendorf, sembrano dire gli inquirenti, se l’è cercata.
«Il Beckenbauer dell’Est»: mica male come biglietto da visita. Lutz Eigendorf se l’è meritato per il suo modo elegante di stare in campo, sempre a testa alta e sempre con le idee “cristalline” su come impostare l’azione. Alla Dinamo Berlino è arrivato giovanissimo e ha subito indossato i panni del leader. Dicono che sia il pupillo di Erich Mielke, non proprio una persona qualunque nella Germania orientale. Mielke è il potentissimo ministro della Sicurezza di Stato, uno che può tranquillamente discutere con Honecker e magari battere i pugni sul tavolo senza rischiare di finire i suoi giorni a passare carte in qualche grigio ufficio, o peggio. L’espressione Ministerium für Staatssicherheit è un susseguirsi di vocali e consonanti con cui è facile litigare, a maggior ragione se non si ha familiarità con la lingua tedesca. Meglio l’abbreviazione, quella sì alla portata di tutti: Stasi, sinonimo di polizia segreta, centrale in servizio permanente di spionaggio e delazioni, laboratorio adibito a pratiche criminali; una struttura di cui aver paura, soprattutto se non si è allineati con il potere.
La Dinamo Berlino è la squadra emanazione del ministero della Sicurezza di Stato, e Mielke è un grande calciofilo. Di più: un ultras, dice chi lo conosce bene. I suoi giocatori sono dei privilegiati, almeno per il tenore di vita medio di quelle parti, ma da loro pretende il massimo, sempre e comunque. Soprattutto, pretende fedeltà.
Il 19 marzo 1979, un lunedì, sedici giocatori della Dinamo, lo staff tecnico e un nutrito numero di agenti salgono sul pullman del club diretti a Kaiserslautern, Germania Ovest. Il giorno dopo è in programma un’amichevole contro la squadra locale: la prima della Bundesliga capitalista contro la prima della Oberliga comunista. I nemici che si guardano occhi negli occhi. L’ansia di non cadere, ammaliati, dalle sirene occidentali. Alla vigilia della partenza, Eigendorf e i suoi compagni hanno dovuto sottoscrivere un codice di comportamento dal titolo che è tutto un programma: «Distanza dal nemico di classe». Sembra un protocollo Covid. In altre parole, vietato qualsiasi contatto con quelli dell’Ovest: se qualcuno pone domande scomode, cucirsi la bocca e avvisare immediatamente i dirigenti. Roba che nemmeno dei bambini in gita di quinta elementare.
L’amichevole si gioca davanti a 11.600 spettatori, piuttosto pochi: non c’è partita, vince il Kaiserslautern 4-1. Mielke, debitamente informato, non deve aver gradito. Sarà l’ultima volta di Eigendorf con la maglia della Dinamo. A tarda sera il «Beckenbauer dell’Est» lascia la stanza, aggira i controlli degli uomini della Stasi e raggiunge il bar dell’albergo. Lì trova Rudi Merk, addetto agli arbitri del Kaiserslautern, padre di quel Markus Merk che all’alba del nuovo millennio si affermerà come uno dei migliori direttori di gara del mondo, tra le tante partite di prestigio gli affideranno la finale di Champions League 2003, Milan-Juventus. Al suo interlocutore, Eigendorf confessa di voler restare all’Ovest. «Pensaci bene», si sente dire per tutta risposta: il giocatore a Berlino Est ha una moglie e una figlia di due anni che lo aspettano. Al momento dei saluti, Merk consegna al giocatore un biglietto da visita: non si sa mai che gli possa servire. I due si alzano, senza guardarsi nemmeno e prendono due strade diverse, scomparendo tra le luci soffuse della lounge.
La sveglia suona prestissimo, il 21 marzo, per quelli della Dinamo. Partenza alla volta di Berlino Est alle 6.15. Il mattino ha l’oro in bocca, verrebbe da dire. Strada facendo è in programma una sosta a Giessen, profonda Assia. In un grande centro commerciale si potrà spendere quello che resta dei marchi occidentali (pochi sia chiaro) che la squadra ha ricevuto prima della partenza. La caccia all’acquisto dura un’oretta abbondante, poi tutti di nuovo sul pullman. Un posto, però, rimane vuoto. Dov’è Lutz Eigendorf? “Avrà avuto un incidente”, ipotizza qualcuno. “No, si è perso nella calca.” “Magari si è addormentato su una panchina…ci siamo alzati troppo presto questa mattina!” Nulla di tutto questo: semplicemente, il talentuoso centrocampista è salito su un taxi diretto a Kaiserslautern. Al conducente ha consegnato il biglietto da visita della sera prima su cui sta scritto «Pariserstrasse». È l’indirizzo di Rudi Merk. “Eccomi qui” le sue prime parole, parole che non sembrano uscire dalla bocca di chi ha appena compiuto un gesto che segnerà per sempre la sua vita. Merk paga il tassista i 375 marchi della corsa e porta Eigendorf nell’ufficio di Norbert Thines, il direttore generale del Kaiserslautern.
La Dinamo riparte alla volta di Berlino Est senza il suo giocatore più rappresentativo. A Giessen restano il capodelegazione Kiste e il vice allenatore Skaba. L’ordine dall’alto è di aspettare l’arrivo di un rappresentante dell’ambasciata della DDR a Bonn per capire se ci sono le condizioni per riportare all’ordine il «disertore». A Kaiserslautern si trovano a gestire una situazione senza precedenti: per prima cosa bisogna proteggere Eigendorf dalla stampa e soprattutto da eventuali ritorsioni di agenti dell’Est. L’idea è quella di sistemarlo almeno provvisoriamente in una pensione sotto falso nome. Il ragazzo però è terrorizzato, teme che lo rapiscano o addirittura che lo uccidano: non vuole restare da solo, e allora Thines decide di tenerselo a casa sua. Lo fa dormire nel suo letto. Dall’altra parte della cortina di ferro, Erich Mielke è una furia. La fuga del «figlioccio» Eigendorf è l’affronto peggiore che potessero fargli. In qualche modo bisogna reagire.
La Stasi si mette in moto nel momento stesso in cui la notizia della fuga di Eigendorf comincia a circolare. Il pullman della Dinamo deve ancora arrivare a Berlino Est quando due agenti bussano all’abitazione del giocatore, al numero 3 di Zechliner Strasse, e invitano la moglie Gabriele a seguirli in un vicino commissariato di polizia. C’è solo un problema: chi si occupa, in assenza della madre, della piccola Sandy? Serve una poliziotta che si presti a fare da balia, così i tempi si allungano. Gabriele Eigendorf viene portata via dopo mezzanotte e sottoposta a un interrogatorio di sette, estenuanti, ore. La Stasi vuole sapere se fosse al corrente dei progetti del marito e soprattutto se conti di raggiungerlo. Lei casca dalle nuvole, nega e alla fine la fanno tornare a casa, dove però trova il lettino vuoto. Un urlo squarcia le prime luci del mattino. L’agente ha portato Sandy chissà dove, perché nel frattempo l’alloggio doveva essere bonificato per sistemare in ogni stanza cimici e altre diavolerie distopiche. Un giorno di ordinaria follia per la Stasi. Gabriele rivedrà la figlia dopo tre giorni di terrore, nessuno le dirà mai dove era stata portata.
Da questo momento la polizia segreta si muove lungo i lati di un triangolo avente come vertici Kaiserslautern, Berlino Est e Brandeburgo, dove risiedono i genitori di Eigendorf. Quando si tireranno le somme di questa storia verrà fuori che le persone impiegate nell’attività di spionaggio, tra agenti effettivi e «collaboratori non ufficiali» (in gergo IM, che sta per Inoffizielle Mitarbeiter), sono state una cinquantina. Cinquanta persone per dare la caccia ad un calciatore. Una marcatura a uomo asfissiante. Passata la paura dei primissimi giorni, Lutz Eigendorf impiega poco a prendere confidenza con la nuova realtà. Non ha con sé nemmeno un vestito di ricambio ma non è un problema: il presidente del Kaiserslautern, Jürgen «Atze» Friedrich, è proprietario di una boutique e provvede a rifargli il guardaroba. Al «Beckenbauer dell’Est» viene trovato un impiego nella sede del club, una cosa più di facciata che altro. Intanto allena la formazione «allievi» e questo sì che si avvicina a un lavoro a tutti gli effetti. Lui lo esegue talmente bene che la squadra passa da una vittoria all’altra e scala velocemente la classifica del campionato di categoria.
Per Eigendorf è un modo come un altro per far passare l’anno di squalifica che la FIFA impone in casi simili al suo. Intanto, scopre gli aspetti più intriganti della quotidianità occidentale. Acquista un’auto per poi cambiarla nel giro di poco, si fa abbagliare dalle ultime novità dell’elettronica, gioca a tennis, passa da una relazione sentimentale all’altra. La moglie Gabriele gli scrive un’unica lettera a inizio aprile. Gli rinfaccia i tanti tradimenti, per esempio «quando ero al sesto mese di gravidanza e tu partivi per una vacanza con un’altra donna». Gli dice che Sandy continua a piangere, che chiede quando torna a casa papà. Ma Lutz non ha nessuna intenzione di tornare. Nella testa dell’ex stella della Dinamo Berlino c’è solo il ritorno in campo. Chissà se gli hanno riferito che la procura di Berlino Est ha emesso nei suoi confronti un mandato di arresto per aver violato gli articoli 100 e 213 del Codice penale, che contemplano appunto l’abbandono illegale del paese.
Il piano architettato dalla Stasi ha qualcosa di diabolico. Prevede che nella vita dell’ancora signora Eigendorf entri un uomo destinato a ricoprire un ruolo centrale. Lei, lasciata dal marito, ha bisogno di una presenza che le trasmetta sicurezza e calore umano. Eccola, la persona: si chiama Peter Hommann, è figlio di un autista del ministero per la Sicurezza, dunque un uomo della Stasi, conosce Gabriele con la quale ha avuto una storia in anni giovanili. Ovviamente Homann è una spia al soldo di Mielke. Si presenta con un mazzo di fiori e lei gli apre la porta di casa. Spionaggio e tecniche di seduzione. I due si sposeranno e faranno un figlio. Frau Eigendorf ottiene il divorzio in tempi record e avvia le pratiche per far cambiare il cognome della figlia avuta dal primo marito, che d’ora in poi si chiamerà Sandy Homann. Per il padre adottivo sarà un gioco da ragazzi restare sul pezzo e tenere costantemente informati i suoi superiori. Non si sa mai che la donna abbia in mente di architettare a sua volta una fuga all’Ovest. Madre e figlia verranno a sapere la verità sul conto di Hommann solo dopo la caduta del Muro e l’apertura degli archivi della Stasi.
La data che Lutz Eigendorf ha cerchiato sul calendario è I’11 aprile 1980, il giorno del debutto in Bundesliga. Il Kaiserslautern ospita il Bochum e vince facile, 4-1. L’uomo fuggito dall’Est gioca gli ultimi ventiquattro minuti, nei quali la sua squadra segna tre dei quattro gol. Sui giornali e le riviste specializzate i giudizi sono largamente positivi. Fra i 26000 spettatori in tribuna c’è anche la spia Heinz Kühn, nome in codice «Buchholz». È l’uomo della Stasi incaricato di marcare stretto Eigendorf segnalando qualsiasi cosa lo riguardi: che auto guida, cosa e dove mangia, come e con chi trascorre il tempo libero, il tragitto dettagliato casa – centro di allenamento, dove parcheggia e perfino se chiude o meno a chiave la portiera una volta arrivato al centro sportivo. La sera della vittoria sul Bochum il «Beckenbauer dell’Est» si trasferisce nella discoteca Big Ben, naturalmente in dolce compagnia. L’agente Kuehn-Buchholz annota tutto, anche la marca di champagne con cui festeggia l’esordio.
Karl-Heinz Feldkamp è l’allenatore del Kaiserslautern. Uno dei più apprezzati in Germania. Eigendorf gli piace, lo schiera in più ruoli, una volta addirittura da centravanti. Col passare delle settimane, però, il livello di gioco espresso dal ragazzo fuggito dall’Est non è più quello iniziale. La condizione fisica cala vistosamente, conseguenza di una condotta di vita fuori dal campo che lascia largamente a desiderare. Intanto la Stasi decide di avvicendare la spia che si occupa di Eigendorf in prima battuta. Kuehn ha superato i sessant’anni, forse non offre più le garanzie di prima, sta di fatto che il suo posto viene preso dal più giovane Karl – Heinz Felgner, nome in codice “Schlosser”, un ex campione di pugilato della DDR che Eigendorf aveva conosciuto nei suoi anni alla Dinamo. Per Felgner non è difficile riannodare i vecchi rapporti di amicizia, al punto che il giocatore lo ospita addirittura per dei periodi a casa sua.
È una delle «vittorie» della Stasi: l’altra viene da Berlino. Fra Gabriele e Hommann procede tutto a meraviglia. I due vanno in vacanza su una vettura con autista (in pratica un collega del papà di lui) in una struttura messa a disposizione dal ministero della Sicurezza. Nella documentazione dell’epoca c’è un passaggio che recita così: «Di ritorno dalle ferie, Gabriele su pressione della nostra fonte ha provveduto a gettare nella spazzatura buona parte degli oggetti personali appartenuti al traditore Eigendorf». Più o meno quello che è successo alla Dinamo Berlino, dove hanno fatto sparire i souvenir con il volto del giocatore, le foto ufficiali e perfino un migliaio di bicchieri con impresso il nome.
Non solo il tennis. Lutz Eigendorf si dedica ad altri passatempi extra calcio di cui negli anni alla Dinamo probabilmente nemmeno conosceva l’esistenza. Lo sci nautico, per esempio. Nella pausa invernale della stagione 1980-81 lo troviamo in Israele, dove incappa in un incidente che lo terrà lontano dai campi da gioco per alcune settimane. La Stasi annota e mette tutto nel dossier che lo riguarda. Ma c’è dell’altro. A Eigendorf piace da matti volare, si è messo in testa di ottenere il brevetto di pilota. Le lezioni costano e soprattutto capita che combacino con gli orari di lavoro. Il ragazzo non si fa problemi e un bel giorno chiede di essere esentato dall’allenamento. Karl-Heinz Feldkamp lo guarda con due occhi così: mai nella sua carriera di tecnico gli era capitato di ascoltare una richiesta del genere. “Sulle prime” – racconterà un giorno – “pensavo scherzasse. Già era uno che cambiava spesso casa e macchina. Tecnicamente, poi, avevo notato in lui cose che non andavano. Quella volta della lezione di volo mi resi conto che stava perdendo il controllo della sua vita.”
La storia fra Eigendorf e il Kaiserslautern è destinata a finire. Nell’estate del 1982 il giocatore si trasferisce all’Eintracht Braunschweig, dove firma un biennale da 180000 marchi a stagione. Ha ottenuto quello che voleva: restare in Bundesliga, garantirsi una vetrina di prestigio e guadagnare molti soldi. Il suo nuovo allenatore, Uli Maslo, conta molto su di lui:
“Sapevamo tutto sul suo conto, che nella DDR era uno dei migliori, che al Kaiserslautern era partito forte ma poi aveva avuto dei problemi. Avevamo in formazione tanti giovani e la sua esperienza ci poteva servire”.
Per la Stasi cambia poco: la “squadra” destinata a prendersi cura di Eigendorf deve solo fare le valigie e trasferirsi quattrocento chilometri più a nord. Nei rapporti che finiscono a Berlino Est sul tavolo di Mielke compare sempre più spesso il nome di Josephine: è una studentessa liceale entrata di prepotenza nella vita del giocatore. Stavolta pare una storia seria. Durante la gita della maturità, «Josi» si reca con la classe di liceo a Berlino e ne approfitta per conoscere i genitori del fidanzato. Lei e Lutz si sposano il 25 ottobre 1982 con un figlio in arrivo: nascerà all’inizio dell’anno nuovo. L’avventura di Eigendorf all’Eintracht Braunschweig comincia nel peggiore dei modi: in precampionato il giocatore si infortuna al tendine d’Achille ed è costretto a saltare le prime tredici giornate. Esordisce il 20 novembre a Stoccarda ed è un film già visto: prestazioni fra il buono e l’ottimo, poi l’immancabile calo.
Il 21 febbraio 1983, un lunedì, è una data cruciale. In prima serata sul canale televisivo regionale Sender Freies Berlin va in onda una lunga intervista al giocatore. Non è la prima che Eigendorf concede ma questa è particolare, non fosse altro che per la location: siamo a Berlino, proprio davanti al Muro, a pochi metri in linea d’aria dallo stadio della Dinamo, quello nel quale Lutz si è fatto conoscere. L’intervistatore gli chiede del sistema-calcio della DDR, del perché il paese che domina in sport come il nuoto e l’atletica non riesca a primeggiare nel calcio.
«È perché si guarda troppo al collettivo e poco ai singoli. Ai giocatori di talento non si garantisce la necessaria libertà di esprimersi.” Poi parte la stoccata: «D’altra parte se nell’ambito privato non c’è la possibilità di svilupparsi e completarsi individualmente, è impensabile che questo si verifichi su un campo da calcio».
Eigendorf ha appena messo un punto fermo alla sua vita. Mielke ascolta, annota e bisbiglia qualcosa nell’orecchio di un uomo della sua cerchia. La «soluzione finale» sta per essere attuata. Il 27 febbraio Eigendorf è in campo nella sconfitta dell’Eintracht Braunschweig contro il Borussia Dortmund. Gioca una brutta partita, da una sua palla persa nasce uno dei gol dei «gialli». L’impegno successivo è in programma il 5 marzo, avversario il Bochum: il «Beckenbauer dell’Est siede in panchina per tutti i 90 minuti, e questo malgrado la sua squadra perda 2-0. L’umore è ai minimi termini. A consolarlo è il presidente Hans Jäcker, che alla fine gli dice:
«Ho parlato con l’allenatore, la prossima volta sarai titolare. Anche perché peggio di così non si può giocare».
Per Lutz Eigendorf non ci sarà una prossima volta.
5 marzo, sera. Eigendorf raggiunge alcuni compagni nel ristorante preferito dalla squadra. Mangia con loro, beve una o due birre da 0,2 litri. Un salto a casa per rivedere alla televisione le immagini salienti della partita del pomeriggio e poi di nuovo in macchina. Ha un appuntamento con Manfred Müller, il suo istruttore di volo. Si vedono in un locale a due passi dall’aeroporto. Il giorno dopo Lutz ha prenotato il primo volo a media gittata, destinazione l’isola di Sylt, Frisone settentrionali. Beve un’altra birra piccola, poi forse un’altra: parola di Müller. I due si salutano alle 22, minuto più minuto meno. Manca circa un’ora all’incidente. Un’ora avvolta dalla nebbia, da una cortina impenetrabile tanto quanto il Muro.
Quanto aveva bevuto Eigendorf prima di uscire di strada? Stando alla ricostruzione, suffragata da testimoni, fra le tre e le quattro birre da due decimi di litro. Un po’ poco per giustificare il tasso alcolemico di 2,2. Ed ecco l’ipotesi più estrema: il giocatore sarebbe stato sequestrato al momento di salire in macchina. Sotto la minaccia di morte gli avrebbe somministrato una miscela di alcol e veleno, poi gli sarebbe stato ordinato di sparire. Un po’ terrorizzato e un po’ confuso, avrebbe guidato come in Lost Highways in una sorta di bolla onirica, ovattata e a metà tra un trip di acidi finito male e un quadro di Dalì. Poi una luce fortissima, come quella del faro dell’isola di Sylt. Sono gli abbagliati di un’auto che giunge in direzione opposta. Eigendorf perde il controllo del mezzo. Dopodiché, lo schianto contro l’albero.
Nel fascicolo della Stasi relativo a Eigendorf, però, è stato rinvenuto un foglio scritto a mano dove si evidenziano parole e concetti di questo tenore: «abbagliare», «statistiche incidenti», “reso impotente dall’esterno”, «anestetico». E poi la parola più importante di tutte: “Eigendorf”. Che fosse l’ex pugile Felgner incaricato di portare a termine la missione? Nel faldone degli archivi della Stasi relativo ai movimenti dell’amico di Eigendorf mancano tutti i documenti compresi fra il 1980 e il 1983. Il giorno della morte del giocatore, a Felgner la Stasi corrispose una somma premio di 500 marchi. Addirittura 1000, invece, i marchi corrisposti al tenente colonnello Heinz Hess per «prestazione straordinaria».
Hess è morto nel 2004, quattro anni prima era stato convocato dalla polizia berlinese per essere interrogato ma si era guardato bene dal presentarsi. Nessuno aveva intrapreso passi ulteriori. In quanto a Felgner, torna a far capolino nelle cronache nel 2011 quando viene fermato per furto in una drogheria di Düsseldorf. Durante il relativo processo, se ne esce con una frase di questo tenore: «Avrei dovuto uccidere io Eigendorf, ma alla fine mi sono tirato indietro». Affermazione sorprendente, tenuto conto che in aula si stava parlando di tutt’altro argomento. Un bel rompicapo. Felgner, per la cronaca, aveva un alibi per la sera del 5 marzo 1983. Restano, e a questo punto rimarranno sempre, le molte zone d’ombra: dalla mancata autopsia sul corpo di Eigendorf, ai documenti spariti fino agli interrogatori mancati.
C’è solo un tassello che manca a completare il mosaico di questa drammatica storia. Lunedì 7 marzo 1983 la Dinamo Berlino è in viaggio alla volta di Stoccarda per un’amichevole simile a quella del 1979 a Kaiserslautern. Stavolta niente sosta in un centro commerciale e massima attenzione nel monitorare gli spostamenti dei giocatori: un altro caso Eigendorf non dovrà ripetersi. Mai più. Al momento di scendere dal pullman, la squadra apprende la notizia: Lutz è morto, troppo gravi le lesioni subite nell’incidente di due giorni prima. Una coincidenza che ha qualcosa di inquietante. Se qualcuno dei giocatori avesse anche solo lontanamente accarezzato l’idea di restare a Ovest, la tragica fine di Lutz Eigendorf rappresentava un ottimo motivo per lasciar perdere. Dopotutto, “A Berlino non penso mai, sì si può vivere, non sogno mai” – e, allora, forse, meglio rimanere dove si è. Anche perché di ritrovarsi “dall’altra parte della vetrina”, come cantava Edoardo Bennato, non ne valeva davvero la pena.