E mo’ sono cavoli. Non tanto per il risultato, che pure è un pugno sul tavolo: Juventus-Lazio 3-1 (occhio: la Lazio, capace di battere il Napoli a Napoli). Per i gol: due Vlahovic e, in mezzo, uno Chiesa. Per un totale, dopo quattro turni, di sette: quattro il serbo, tre Fede. Vlahovic, Chiesa: la coppia che un Don Abbondio a rovescio vorrebbe ostinatamente sposare. L’unico. Alla faccia dei parenti, stretti e non stretti. Due solisti che si dividono un mitra, scrissi. In balia di munizioni vaghe. Ne ho cannate tante, una più una meno. E’ ancora presto, ma ne prendo atto.
Entrambi di destro, i gol di Vlahovic. Molto belli: il primo di volée felpata, da artista; il secondo, figlio di un controllo e un tiro da centravanti matricolato. Di sinistro, il lampo del sodale. I paragoni sono insidiosi, come quei night in cui entri sperando in chissà chi e ti ritrovi al verde. Calma, dunque. Però.
L’ordalia dello Stadium ruota attorno ai fatti della ditta di fatto, alla splendida rete di Luis Alberto (abile a castigare uno sgorbio di Bremer in uscita), al mezzo miracolo di Provedel su Rabiot (sarebbe stato il 3-0) e allo scarabocchio balistico di Weah (sarebbe stato il 4-1). Veniva, Madama, da una settimana tribolata – il caso Pogba, il casino Bonucci – senza però Europa tra i piedi. La Lazio, viceversa, da giorni placidi ma con la Champions già martedì. I confronti Allegri-Sarri sono sempre sfide all’Ok Corral, le dottrine nascoste nelle fondine come pistole fumanti. Morale: per un quarto d’ora, Juventus avanti tutta al guinzaglio di un Locatelli rigenerato e di un McKennie puntuale a suggerire i cambi-campo. Poi, secondo ricetta, ecco l’alta marea diventare minestra, con i cucchiai di Zaccagni e Luis Alberto ad affogarci dentro.
Per concludere: ai vincitori il possesso risultato, agli sconfitti il possesso palla. Fermo restando Immobile: agli arresti domiciliari, indottovi da Bremer e c.
Roberto Beccantini