La tetraparesi spastica degenarativa manifestatasi all’età di dodici anni non l’ha fermata, anzi. Le ha dato maggiore consapevolezza di sé: “Io ho una malattia e non sono la mia malattia” dice e aggiunge, “Sono una persona che naviga a vista, senza bussola”. A Londra, agli ultimi mondiali di nuoto, ha vinto 6 medaglie: 2 ori nei 50 e 100 stile, 2 argenti nelle staffette 4×50 stile libero e 4×50 mista e 2 bronzi nei 50 dorso e 150 misti. Nel 2020 l’aspettano i Mondiali di Tokyo, in programma dal 25 agosto al 6 settembre, subito dopo gli Europei di Funchal (Madeira, dal 17 al 23 maggio). Lo scorso 14 novembre insieme alla sua squadra ha incontrato il presidente Mattarella “Un uomo davvero alla mano. Ha fatto foto e selfie con tutti”.
R. Un po’ impegnativa. La sveglia suona alle 6. Vengo al lavoro, full time in Banco BPM. Dopodiché un’ora di traffico e poi piscina al Saini. Quindi, dopo un’altra ora di traffico, torno a casa e vedo mio marito un attimo. Quindi è un ritmo molto serrato. Allenamenti 4 volte alla settimana e nei week-end le gare.
R. Più che altro mancano gli spazi acqua per noi. Quando abbiamo gare più impegnative e dobbiamo allenarci al mattino presto o inizia il periodo estivo in cui le piscine sono aperte al pubblico dobbiamo “girare” in cerca di un’altra piscina. Quindi le strutture ci sono anche, potrebbe essere certo migliorate, ma a noi serve lo spazio acqua e non solo dei ritagli che non servono agli altri.
R. Spesso ci tocca adeguarci, ossia nuotare quando non lo fanno gli altri. E non è concepibile che alcune squadre debbano allenarsi quando non ci sono persone perché c’è solo quello spazio disponibile. Dobbiamo poter scegliere orari consoni per noi mediamente. Sicuramente negli ultimi anni c’è stato un miglioramento nella disponibilità, ma siamo ancora distanti dall’avere…
R. “No, non parità. È proprio una mancanza. Direi conoscenza o valorizzazione di tutti gli atleti. Io non faccio distinzione tra chi fa sport a livello agonistico o a livello amatoriale: è sempre sport e tutti devono avere le stesse disponibilità. A maggior ragione se hai delle squadre che ti portano dei risultati; agevolarne la preparazione sarebbe auspicabile”.
R. Indipendentemente da tutti gli ostacoli il motore di tutto è la passione. Tutti noi siamo mossi da una passione per questo sport che ci porta a fare delle scelte. E non sacrifici, ci tengo a sottolinearlo. Sono io che ho scelto cosa fare nella mia vita. Ed è anche di più che avere una spinta a fare qualcosa perché voglio vincere. Lo faccio perché mi piace, amo quello che faccio ed è sicuramente una motivazione più forte che porta a riuscire a sostenere dei ritmi che a volte diventano veramente pesanti. Quando sei in acqua alle 7 del mattino ti può venire di pensare ma chi me l’ha fatto fare! Ma è un pensiero che ti sfiora appena e che scompare nel momento in cui entri in acqua”.
R. C’è un percorso che stiamo facendo, anche noi tramite interventi in convegni e interviste in cui cerchiamo di fare arrivare il messaggio che sì, siamo disabili, ma che lo sport è uno. Quindi che lo faccia io o un normodotato l’impegno che bisogna mettere, la determinazione e la passione che muovono a fare qualcosa sono gli stessi. Anzi forse noi dobbiamo avere anche un minimo di grinta in più perché abbiamo obiettivamente degli ostacoli in più che sono quelli tecnici, per esempio sulla logistica e i tempi degli spostamenti, montare e smontare la carrozzina per caricarla in macchina. Tutta una serie di complicazioni che hanno però tutti. Quindi, non c’è uno sport per i disabili. C’è lo sport, punto.
R. Purtroppo, o per fortuna, se riusciamo a superare il limite riusciamo ad essere autonomi. Per esempio, mi piacerebbe poter prendere la metropolitana per arrivare al lavoro, ma non è possibile. Certo negli anni ci sono stati dei miglioramenti, ma siamo ben lontani dall’essere nella condizione ottimale.
R. È impegnativo, specie nei periodi in cui si le gare internazionali, ma ci riesco. Sul lavoro è un po’ complesso, non sarebbe male se le Istituzioni pensassero ad una soluzione legislativa che permetta agli atleti che vestono la maglia della nazionale di potersi allenare senza sacrificare il lavoro.”
R. È una malattia degenarativa su cui non ci sono statistiche ed io sono qui a parlartene dopo vent’anni. Ormai ne ho piena consapevolezza, fa parte di me e lo sport mi ha aiutata tantissimo ad affrontarla. Inizialmente i medici non volevano che lo praticassi a questi livelli perché temevano che il metabolismo potesse accelerare nella degenerazione, ma alla fine è stato esattamente l’opposto: ne sono fermamente convinta. Tenere i muscoli in attività è come fare terapia tutti i giorni”
R. Credo sia in realtà più una condizione mentale che fisica. Nel senso che tutti alla fine in alcuni momenti della nostra vita possiamo avere dei problemi, come potrebbe essere un mal di schiena, e quindi in quel momento una persona non è abile a fare qualcosa. Tutto sta nel come reagisci ad una difficoltà fisica, se le permetti di fermarti in quel momento la disabilità inizia ad impossessarsi della tua vita. E permetti alla malattia di prendere il sopravvento. A volte bastano l’accettazione e la consapevolezza di quello che si ha e cercare di capire come utilizzare la parte che non ha problemi, fosse anche solamente il cervello. Quindi la disabilità credo che non sia un problema fisico; è quanto questo ti condiziona mentalmente e ti blocchi nel fare determinate cose o prendere determinate scelte”.
R. La famiglia per me è fondamentale. Se non mi avesse sostenuta non so se oggi sarei qui a dirti le stesse cose.
R. La medaglia è bella, ma se non sei soddisfatta di quel tempo, certo la prendi, sei contento, ma non è la stessa soddisfazione di uscire dall’acqua sapendo di avere dato il massimo. Ed è quello che io mi prefiggo prima di ogni gara: uscire dall’acqua con la consapevolezza di avere dato tutto quello che potevo.
R. Ai giovani serve più la sconfitta della vittoria, nel senso quindi che dalle sconfitte possono imparare che per arrivare ad un risultato devono lavorare e il doppio perché se perdono una gara primo devono ritrovare la motivazione per tornare in piscina piuttosto che un altro sport, secondo devono mettersi a lavorare sodo perché per arrivare all’obiettivo non ci sono scorciatoie. Non si può prendere una strada più corta. Si deve lavorare e basta. Soprattutto quando si è più piccoli: se si dà tutto per scontato che vincere è facile e puoi arrivarci come vuoi il nuoto, o lo sport in generale, ti fa prendere tanti di quei pali che poi te li ricordi. Quindi devi per forza lavorare se vuoi farlo, se no lo sport non fa per te. È una buona palestra per la vita.
Benedetta Borsani