Il prossimo 4 maggio il Giro d’Italia partirà da Gerusalemme. Farà tre tappe laggiù. Per la prima volta lascia l’Europa e cambia continente. Va in Asia, dove è nato tutto: l’alfabeto, i numeri, la ruota, la fede.
È la quindicesima volta che il Giro parte dall’estero. La prima fu da San Marino nel 1965, l’ultima l’anno scorso da Apeldoorn in Olanda. Due date di questo percorso sono importanti.
Nel 1973 si partì da Verviers in Belgio e attraverso Olanda, Germania, Lussemburgo, Francia, Svizzera, si tornò in Italia, facendo in pratica un Giro d’Europa: quella volta, idealmente, la bicicletta fu una moneta che univa paesi ancora incerti e divisi ben prima dell’euro.
Nel 1996 si partì da Atene, dalla Grecia, un paese senza tradizioni ciclistiche, ma quella era la culla di Socrate, Platone, Aristotele, dove è nata la civiltà del Mediterraneo. Era soprattutto la culla dello sport, dove sono nate le Olimpiadi. Cipollini era Corebo, il primo vincitore nello stadio. Per noi, che abbiamo seguito 28 Giri d’Italia, fu un’esperienza di una bellezza mozzafiato.
Ma ora si cambia scala. Il Giro diventa planetario. Lo fa in linea con la sua stessa natura. Questa corsa non è fatta solo da italiani e per italiani. Il Giro è uno sciame di cui fanno parte corridori di tutti i continenti, di tutte le lingue, di tutte le religioni. Sono cittadini del mondo che pedalano, valicando i confini, e gareggiano con la forza splendente della giovinezza. Sono gli uomini nuovi.
Vanno lì nel paese della Bibbia e del Vangelo, nella culla della cristianità. Ma il Giro non è una crociata. Non va in Asia a sconfiggere gli infedeli. Zakarin appartiene all’Islam e pedala senza imbarazzo al fianco di cattolici, protestanti, ortodossi, buddisti, shintoisti, atei. Il Giro non ha a Israele a piantare un vessillo. La bicicletta ha una sola bandiera: la pace.
Certo il Giro, nel suo lungo cammino, ha visitato tutti i santuari d’Italia. È stato più volte dal Papa. Ricordo che nel 2000, prima del via, si recò da Papa Wojtyla. Quella volta mi dovevo occupare di Pantani e feci la strada con lui. Era già il Pantani dolente, che lottava per riemergere. Non si inginocchiò, come gli altri, davanti al Papa, che gli parlava. Ma i suoi occhi scintillavano. Dolcemente turbato da una commozione profonda.
Riproveremo quella commozione a Gerusalemme, costeggiando il Giordano, davanti al Mar Rosso o alla Spianata delle moschee. Il Giro va in Palestina nel nome di Gino Bartali, il Giusto tra le Nazioni. Quando arrivavano le montagne al Giro, facevo sempre un’intera tappa al suo fianco. Un giorno mi parlò di mons. Niccolini e di Assisi e mi chiese: “Lo conosci? È trentino come te”. “Ma tu cosa facevi ad Assisi durante la guerra?”, replicai. Tirai fuori con le pinze, con grande fatica, il suo lavoro di “postino della salvezza”: portava nel tubo piantone del telaio i documenti per l’espatrio di ebrei, destinati ai campi di concentramento. Finita la storia, con la sua voce roca, mi intimò: “Tu di questo non scrivi una riga!”. Chiesi perché. Rispose, prendendomi il polso con la destra e guidando con una mano sola, con un tono all’improvviso confidenziale: “Claudio, il bene si fa, ma non si dice”. Una lezione memorabile.
Andando a Gerusalemme il Giro non dimentica la Shoah, l’Olocausto. È stata la vecchia Europa a compierlo. Sei milioni di ebrei evaporati. Andiamo in Palestina nel nome di Bartali, certo, ma anche nel nome di Arpad Weisz, vincitore di tre scudetti – uno con l’Inter, due col Bologna – e della sua bella famiglia scomparsa nelle camere a gas. Ma questa è un’altra storia.
Per oggi diciamo che si va nella terra che ha generato Einstein e Freud, Gerschwin e Italo Svevo, Modigliani e Chagall, Barbra Streisand e Gwyneth Paltrow, i fratelli Marx e Jerry Lewis. Il Giro va in Asia a portare il sorriso. La bicicletta è sapiente. Conosce la parabola del buon samaritano. Sa che Gesù era palestinese.
Claudio Gregori