Difficile trovare una parola differente da “mito” per definire Babe Ruth. Un mito capace di esercitare ancora oggi un certo fascino, come dimostrano i 5,64 milioni di dollari sborsati a giugno 2023 per una sua maglietta nel corso di un’asta a New York: cifre da primato. Il record precedente? Sempre suo: 4,4 milioni di dollari per un’altra sua casacca venduta nel 2012. Fatti che testimoniano il solco tracciato nel baseball da questo fuoriclasse che iniziò come lanciatore mancino nei Boston Red Sox, ma ottenne i successi più importanti come esterno dei New York Yankees.
Con Lou Gehrig, l’altro fuoriclasse del baseball Usa, formò una coppia formidabile. Un’intesa straordinaria svanita a causa di un banale litigio e che portò i due ad ignorarsi per anni. Una cortina di silenzi che crollò solo nel 1939 quando Gehrig, vinto ormai dalla Sla, mise piede per l’ultima volta nello Yankee Stadium davanti a 60mila tifosi. Lou andò al microfono e disse con l’ultimo filo di voce rimastogli in corpo:
«Sebbene io abbia avuto il duro colpo dalla sorte, mi considero l’uomo più fortunato sulla faccia della terra. Ho avuto i migliori genitori e la moglie più perfetta che possa toccare ad un uomo. Ho giocato nella più bella squadra… Ringrazio tutti perché ho avuto molto di cui vivere».
Quel giorno, l’intero Yankee Stadium pianse. E Babe Ruth non fece eccezione, anzi: si sciolse, lasciò il posto a sedere e corse ad abbracciare Gehrig per consolarlo, senza riuscire a dire mezza parola. A Lou Gehrig che morirà il 21 luglio del 1941 è stato dedicato anche un film, “L’idolo delle folle”, in cui Ruth è tra gli attori protagonisti nel ruolo di se stesso. Il suo ex compagno di squadra Joe Dugan disse una volta in un’intervista che: “Per capire Babe devi pensare a lui come se non fosse un essere umano”.
I giornalisti si scatenarono nell’affibbiargli soprannomi grandiosi, “Sultan of Swat”, “Behemoth of Bust” e il più famoso di tutti, “Great Bambino”. Le sue figurine divennero costosissime, le radio casalinghe col suo nome andavano a ruba e una compagnia di dolciumi introdusse una candy bar dal nome piuttosto sospetto, “Baby Ruth”, che si vende ancora oggi, un secolo dopo. Babe nei 22 anni passati in campo distrusse ogni record del baseball, vincendo la classifica dei battitori della American League per 12 volte e mettendo a segno ben 60 fuoricampo nel 1927, un record che secondo gli esperti dell’epoca non sarebbe mai stato battuto. Cinema, libri e articoli di giornale: tutto parla ancora di Babe.
Le origini del mito
Per tentare di capire quella specie di universo parallelo che è lo sport a stelle e strisce è necessario prima di tutto tenere a mente che è come se vivesse secondo un calendario totalmente diverso dal nostro. Se nel Vecchio Continente tutto, a parte il ciclismo ed i motori, chiude per ferie da giugno ad agosto, dall’altra parte dell’oceano le cose vanno in maniera diversa. Ogni mese è legato ad un evento speciale, dai playoff NFL alle finals del college basket, ai playoff NBA e così via. Quello che veniva definito il “passatempo nazionale”, il baseball, è uno sport visceralmente americano che sta lentamente diventando globale dopo un secolo e mezzo di storia sconosciuta alle nostre latitudini. Da noi è ancora roba per pochi eletti ma in molti altri stati, Giappone e America Centrale su tutti, rischia di insidiare la supremazia del calcio.
Come succede spesso nelle storie di baseball, tocca tornare parecchio indietro nel tempo, fino a quell’immane carneficina che prende il nome di Prima guerra mondiale. L’ambientazione è Boston, capitale non ufficiale di una regione che sulle cartine si fa fatica a trovare: il New England. Sei delle tredici colonie originarie degli Stati Uniti d’America gravitano inevitabilmente su questa grande città, tanto antica quanto molto poco yankee. Si dice, infatti, che i bostoniani si sentano diversi dal resto dell’Unione e molto più vicini allo spirito delle isole britanniche. Ricca e sofisticata, Boston si era ben presto appassionata al baseball, arrivando persino a sorvolare sul fatto che le serie finali portassero il nome di un quotidiano, il World, espressione di quella New York mai tanto amata. La loro squadra, dagli inconfondibili calzettoni rossi, dominava lo sport come avrebbero fatto nel secolo successivo per la gioia dei loro tifosi i Celtics di Bill Russell ed i Patriots di Tom Brady.
Nel 1914 il general manager dei Red Sox, Jack Dunn, adocchiò nella vicina Baltimora un giovane di grande talento. Questo ragazzino degli Orioles, la selezione locale, sembrava capace di grandi cose e i campi di provincia nei quali si inzaccherava la divisa il fine settimana incominciavano ad andargli stretti. Qualche mese più tardi Dunn fece un’offerta indecente, si vocifera tra i 20.000 e i 35.000 dollari, e si portò a casa questo grande talento. Il suo nome? George Herman “Babe” Ruth.
Nato a Baltimora, aveva fatto impazzire a tal punto i genitori che questi lo affidarono, disperati, alla St. Mary’s Industrial School, una specie di riformatorio cattolico, quando aveva solo sette anni. Nella sua autobiografia, Ruth scrisse che:
“ripensando alla mia infanzia, onestamente non ricordo esser mai stato in grado di capire la differenza tra il bene e il male”.
II piccolo George marinava la scuola, bighellonava per strada e commetteva piccoli furti. Beveva e masticava tabacco. Invece di rovinarlo, gli anni alla St. Mary furono la svolta: fu lì che Babe Ruth si accorse della bellezza del baseball. Un giorno la sua squadra era in svantaggio, il battitore non ne stava imbroccando una e Babe iniziò ad insultarlo. Padre Matthias per dargli una lezione, lo fece entrare al posto del compagno preso in giro, ed è qui che nacque la leggenda. Diventò talmente bravo da guadagnarsi un contratto con gli Orioles il giorno di San Valentino del 1914, a 19 anni appena compiuti. La stessa data di nascita del campionissimo è avvolta dal mistero, tanto da provocare un mezzo incidente internazionale. Nel 1934, quando la Major League Baseball decise di mandare in Giappone una squadra coi migliori giocatori della lega per aumentare la popolarità di mazza e guantoni nel paese del sol levante, Babe Ruth si rese conto che era nato quasi un anno dopo rispetto a quanto gli avevano fatto credere i suoi genitori, il 6 febbraio 1895.
La cosa, a dire il vero, non dovrebbe stupire troppo, visto che veniva da una famiglia piuttosto turbolenta. Suo padre, George Herman Ruth Senior, era il proprietario di una catena di bar in grado di fare concorrenza alle peggiori bettole di Caracas. Un caldo giorno dell’agosto 1918, mentre stava dietro il bancone, scoppiò una rissa tra due dei suoi cognati. George iniziò a litigare pesantemente con uno di loro, risolvendo il tutto in una zuffa micidiale in strada. Secondo il resoconto della polizia, il padre del campione cadde pesantemente, fratturandosi il cranio nell’impatto. Nonostante i tentativi dei soccorritori, non ci fu niente da fare e l’ombra del padre iracondo aleggiò a lungo sul “Bambino”.
Nel 1919 l’allenatore dei Red Sox iniziò a dargli più spazio anche in battuta, cosa parecchio inconsueta per il baseball dell’epoca. Quando un lanciatore è costretto ad andare sul piatto, di solito è un’eliminazione quasi certa. Babe Ruth, invece, quella pallina non solo la colpiva spesso e volentieri ma la mandava anche fuoricampo con regolarità sbalorditiva. Eppure, nonostante grandi prove, la stagione finì male per i Red Sox, incapaci di bissare il titolo dell’anno precedente. Pochissimi, però, si aspettavano che quello sarebbe stato l’ultimo anno del “Bambino” coi calzettoni rossi ai piedi. Il 3 gennaio 1920 il proprietario della franchigia decise di vendere il campione ad una squadra che non se la stava passando per niente bene, i New York Yankees. Mai mossa si sarebbe rivelata più fatale.
La cessione
Harry Frazee, un nativo della Grande Mela e proprietario dei Red Sox, aveva in mano la squadra più vincente di sempre, capace di mettere in bacheca cinque delle prime 15 World Series della storia del baseball. Cosa andò storto? Una combinazione di fattori, a partire dal fatto che, dopo esser stato protagonista della vittoria del 1918, Babe Ruth si presentò al camp dello Spring Training deciso a strappare un sostanzioso aumento di stipendio.
Nonostante un triennale da 27.000 dollari all’anno, il “Bambino” non fu in grado di trascinare i Red Sox come aveva fatto in precedenza. A lui non importava che la squadra fosse finita sesta nella American League: stava diventando popolarissimo. “O il doppio o niente”, pensieri e parole di Ruth. Frazee era un produttore teatrale e stava faticando ancora a ripagare il prestito contratto tre anni prima per comprare la franchigia. Gli era poi capitato per le mani un libretto molto interessante che, secondo lui, avrebbe potuto sfondare a Broadway. Le produzioni, però, costano parecchi soldi e lui non ne aveva a sufficienza. Gli Yankees avevano proprietari dal portafoglio profondo ma annaspavano nella palude della mediocrità più assoluta, tanto da non essere mai arrivati nemmeno una volta in finale. Quando gli offrirono la bellezza di 100.000 dollari per il cartellino del campionissimo, Frazee non ci pensò due volte. Il famoso libretto sarebbe in effetti diventato “No No Nanette”, uno dei musical più famosi dell’epoca, facendogli fare parecchi soldi. Il prezzo, incredibilmente caro, lo avrebbero, però, pagato i Red Sox.
L’arrivo del più grande campione di sempre mise permanentemente gli Yankees sulla mappa del baseball mondiale. Da allora la franchigia della Grande Mela è arrivata alle World Series 37 volte, aggiudicandosene ben 26 nel 20° secolo, quattro dei quali con il Bambino in campo. L’inizio con gli Yankees fu tutt’altro che negativo. Babe ripagò l’investimento fatto dalla società, sia allenava regolarmente e diventò l’esterno titolare ai danni di tale George Halas, un giocatore modesto, che si risentì del taglio e lasciò il baseball, dedicandosi al football americano. Fondò, infatti, i Chicago Bears e la National Football League. Ma questa è un’altra storia.
Quell’anno Ruth riuscì a portare gli Yankees per la prima volta alle World Series, ma a prevalere per 5-3 furono i rivali cittadini dei New York Giants. Ruth, però, migliorò il suo record di fuoricampo diventando lo spauracchio di tutti i lanciatori. Dal 1920 al 1923, visse le sue migliori stagioni all’ombra della Statua della Libertà: diventò capitano, ogni anno incrementava il suo record di fuoricampo e nel 1921 fu un caso di studio per la Columbia University, dove venne scientificamente provato che in lui albergava qualcosa di sovrumano. Non fu però tutto rose e fiori.
La sua prima crisi da professionista bussò alla porta e la vita personale non andava meglio. Iniziò ad essere sospeso per la sua irriverenza in campo, tanto dalla lega quanto dalla squadra stessa. I ritmi di vita si fecero via via più spericolati: amava mangiare, bere e spassarsela con belle donne. Quest’ultima passione lo portò anche alla separazione, non al divorzio essendo devoto cattolico, con la moglie Helen Woodford. L’esuberante vita sociale, ma anche le mancate presenze in campo, influirono negativamente sul suo rendimento, anche se nel 1927 firmò il suo personalissimo record di fuoricampo in una stagione (60).
In gara 3 delle World Series del 1932, che vedevano gli Yankees contro i Chicago Cubs, Ruth realizzò uno dei fuoricampo più celebri della storia del baseball, su una palla che molti giurano “chiamata” in anticipo da Ruth. In un’intervista del 1945, Babe racconta di aver preso i primi due strike, alzando un dito dopo il primo e due dopo il secondo. Poi avrebbe puntato alla staccionata all’esterno, e al lancio successivo spedito la pallina sugli spalti. Una scena ormai epica per il baseball americano.
La stagione finale del “Bambino”, nel 1935, andò in scena con indosso la divisa dei Boston Braves. Molti dei record di Ruth resistettero, incrollabili, per decenni. Curioso l’accrescimento del suo salario nel corso della carriera con mazza, guantone e cappellino. Centuplicato nel corso di 20 anni: si passò infatti dai 350 dollari degli esordi con i Baltimore Orioles, ai 35000 con gli Yankees. Ruth morì di cancro alla gola all’età di 53 anni, il 16 agosto 1948, a New York City. Il suo corpo rimase per due giorni allo Yankee Stadium e venne omaggiato da oltre 100.000 tifosi.
La maledizione
E i Red Sox? Il loro percorso fu diametralmente opposto rispetto a quello di Babe: dopo aver dominato lo sport per vent’anni, la franchigia del New England entrò in una crisi apparentemente irreversibile. La stampa di Boston iniziò così a parlare “della maledizione di Babe Ruth”. Nel 1990, uscì anche un libro a cura di Dan Shaughnessy, giornalista del Boston Globe, intitolato appunto “La maledizione del Bambino”. Su questo anatema si è scritta una montagna di articoli, realizzati documentari televisivi e persino una pièce teatrale ma toccò ai tifosi dei Red Sox prendere in mano la situazione e tentare di liberare la propria squadra dalla sfortuna.
Nel 1999 i Red Sox invitarono così Julia Ruth Stevens, figlia del campionissimo, a fare il primo lancio cerimoniale per gara 4 della finale della American League. La riappacificazione con lo spirito vendicativo del padre, però, non avvenne e la squadra mancò l’approdo alle World Series. Negli anni successivi i tifosi ne escogitarono di ogni: dal portare in cima all’Everest un cappellino dei Red Sox, seguendo il consiglio di un monaco buddista tibetano, all’andare alla ricerca di un pianoforte nelle profondità del laghetto di Sudbury, dove il campione aveva una casa di campagna, mossi dalla convinzione che una volta restaurato l’incantesimo sarebbe svanito.
Nel luglio del 2004, durante una partita a Fenway Park, una battuta finita in fallo del campione Manny Ramirez colpì in pieno volto un ragazzino, facendogli saltare due denti. Cose del genere capitano ogni tanto negli stadi di baseball. C’è, però, un grosso ma: il ragazzino viveva nella fattoria di Sudbury, quella casa di campagna che un tempo aveva ospitato il campione di Baltimora. Si iniziò quindi a diffondere la voce che la maledizione fosse finita, specialmente quando la squadra iniziò a giocare davvero bene. Per uno dei tanti scherzi del destino, nella finale della American League del 2004 i Red Sox si trovarono di fronte i New York Yankees a giocarsi l’accesso alle World Series. Dense nubi tornarono ad addensarsi sul capo dei tifosi quando, partita dopo partita, gli odiati rivali si portarono sul 3-0, un vantaggio che nessuna squadra fino a quel momento era stata in grado di ribaltare.
Qualcosa però scattò nella squadra e una serie di partite incredibili fecero esplodere di gioia tutta Boston. Forse stavolta era davvero tutto finito. Quando in finale, i Red Sox si trovarono di fronte i Cardinals, gli scongiuri in città si sprecarono ma non ce ne fu affatto bisogno. Incredibilmente i “calzettoni rossi” trionfarono con un nettissimo 4-0 e vinsero il primo titolo MLB dopo 86 interminabili anni. Per un’altra delle mille coincidenze di questa storia, l’ultimo giocatore eliminato dai Red Sox, al secolo Edgar Renteria, portava il numero 3, lo stesso che il Bambino aveva reso famoso.
Un caso? Nessuno a Boston ci crede davvero. Dopo quasi 90 anni, il campionissimo ne aveva avuto evidentemente abbastanza. La maledizione era finita. Magari a São Domingos de Benfica potrebbero prendere appunti.